Il Vino: Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880. Autori vari

Il Vino: Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880 - Autori vari


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mime seminude e senatori od equiti romani.

      Dopo un certo tempo, per quanto si sentisse infiammata dal desiderio ognor crescente col crescere dell'orgia, non poteva più la gola, come è facile intendere, dilatarsi compiacente a ricevere nuove ondate torrenziali di vino: lo stomaco troppo pieno si ribellava con irresistibile energia. Non perciò si sgomentavano gli eroici figli di Romolo; coloro che avevano domato il mondo intero vollero domare anche l'indocilità del proprio stomaco.

      E trovarono la titillatio.

      Si appartavano in una stanza prossima al triclinio: quivi li aspettava uno schiavo colla mano armata di una lunga penna dalle barbe rosse. Ed allora quei conquistatori dell'orbe intero spalancavano innanzi a lui le loro fauci: lo schiavo vi introduceva con molto garbo la sua penna, la spingeva con molto garbo fin dentro la gola e leggermente e delicatamente titillabat, titillava... Ad un tratto...

      Dio mio, come dire? Ad un tratto il cittadino Romano, felice d'essersi liberato da una grave angustia che gli gravava lo stomaco, traversava la stanza a passi molto larghi e tirando in su il lembo estremo della tunica, e ritornava nel triclinio. Allora poteva bere di nuovo. E quest'usanza doveva essere assai diffusa, perchè lo stesso Cicerone ne parla nell'orazione Pro Rege Deiotaro come di cosa affatto naturale.

      Nè ciò bastava: ma per accrescere e render perenne la sete ricorrevano ad altri mezzi ancora. Plinio ne ricorda parecchi: v'era chi mesceva nel vino della pietra pomice, chi vi aggiungeva (scrive il celebre naturalista in tono indignato) cose turpi anche a dirsi; alcuni afferravano a due mani un'anfora e la bevevano d'un fiato per poter rigettare e quindi bevere ancora, altri si avvoltolavano nel fango come porci nel brago, altri arrovesciavano con fatica il capo all'indietro per dilatare il petto e renderlo più capace.

      Qual meraviglia che una tal gente disfatta dalle gozzoviglie non sentisse più nei polsi forza bastante per divincolarsi dalle strette erculee dei barbari? fra le altre cose, l'Impero d'Occidente era ubbriaco fradicio: lo urtarono, e precipitò a terra russando.

      Allora cominciò veramente un'età nuova: e quanto più s'erano dapprima gli uomini aggrappati alla vita per succhiarne, per esaurirne tutte le possibili delizie, tanto più ora la spregiavano come cosa vile e provocatrice al peccato. Nè certo il vino poteva esser ultimo a provare gli effetti di questa maledizione scagliata con acre voluttà di sagrificio contro ogni gioia terrena.

      E mi basti citare a questo riguardo quello che fin dal secolo IV scriveva S. Geronimo ad Eustachio: «Se alcuna cosa in me può essere di buono consiglio, se all'esperto si crede, questo prima ti ammonisco, che la sposa di Cristo il vino fugga come veleno».

      In quei lunghi secoli di denso ascetismo, in cui però la coscienza umana si ritempra apprestandosi a gloriose battaglie, ci fa quasi meraviglia l'udire una voce di allegra e talvolta cinica protesta: e l'inno dei Goliardi ci giunge come il grido della ribellione alle smodate esigenze dello spirito, come il primo sintomo d'un risveglio della ragione umana che ritorna dai nebulosi spazi dell'infinito in sulla terra e ne riconosce le serene bellezze. E i Goliardi a chi inneggiano principalmente nei loro canti ove risorge il sentimento della realtà e della natura? Inneggiano sopratutto al vino di cui noverano le lodi con entusiasmo troppo caldo e sincero per non essere bello.

      Intanto col successivo svilupparsi, specialmente dopo il secolo decimo, di questo sano elemento per cui gli uomini sono tratti di bel nuovo verso la terra, altri fenomeni si fanno manifesti nei quali rivive una traccia del paganesimo che pareva spento e non era. Ed ecco venire in uso molte feste che ci ricordano press'a poco i Baccanali e i Saturnali antichi benchè svisati in maschera cristiana per l'introduzione di elementi parecchi di cui l'origine prima non è ben nota. E tra queste feste piacemi ricordare la famosa dei Pazzi e degli Innocenti, vera parodia dell'ufficio divino.

      Le monde est plein de fous, et qui n'en veut point voir

      Doit demeurer tout seul, et casser son miroir.

      E quella non meno celebre dell'Asino innanzi al quale, vestito dei sacri paramenti, si celebrava una Messa per ingenua empietà singolarissima. In quest'asino altri ha creduto di riconoscere quello che dopo aver servito al Cristo nella sua entrata in Gerusalemme, passò, secondo la leggenda, a Cipro, a Rodi, in Malta e in Sicilia, quindi traversando a zampe asciutte il mare, a Venezia: nel qual luogo non trovandosi bene pel clima, venne finalmente a Verona dove morì. Ma c'è pure chi non vede in lui che l'asinello il quale avendo servito a Bacco nella sua fuga, fu per ricompensa posto dal Nume a brillare fra le costellazioni nel cielo: dove, sia detto a conforto dei suoi simili, non pare che splendesse meno di qualsiasi altra.

      Queste feste non mancavano d'essere accompagnate da orgie scandalose che avevano per teatro le stesse chiese: e benchè i concilii più volte le condannassero, durarono tuttavia molti secoli ancora.

      Del resto, i bagordi nell'interno dei templi erano di vecchia data: e già nel 364 il concilio di Laodicea proibisce le agapi che aveano introdotto nelle chiese l'uso dei letti convivali. Seguirono tuttavia, specialmente nelle feste citate; e noi leggiamo ad esempio nel Rituale della Chiesa di Santa Maria Maddalena in Besançon, questa regola espressa da seguirsi al giorno di Pasqua: «Dopo la predica avranno luogo delle danze nel mezzo della nave del tempio: e finite queste vi si farà una colazione con vino rosso».

      Quanto al lusso delle mense ecclesiastiche qualche cosa già ne indoviniamo dalle implacabili satire goliardiche: ma assai espressivo in ogni caso è quanto scriveva circa il 1070 San Pier Damiano dei preti del suo tempo: «Bramano di arricchire perchè nei bicchieri cristallini biondeggino mille vini artefatti».

      E nel 1149, per citare ancora un esempio, i Canonici di S. Ambrogio di Milano pretendevano in certi giorni dal proprio Abate una succolenta refezione con tre portate distinte: «In prima appositione pullos frigidos, gambas de vino, et carnem porcinam frigidam. In secunda pullos plenos, carnem vaccinam et turtellam de clavezolo. In tertia pullos rostidos et porcellos plenos».

      E se così dimenticavano presso di noi gli ecclesiastici la virtù dell'astinenza e della mortificazione dei sensi tanto cara ai monaci del primo medio evo, non è a credere che i laici fosser da meno di loro.

      Nel panegirico di un anonimo a Re Berengario, del secolo X, così viene introdotto un soldato Gallo ad apostrofare gli Italiani: «A che vi corazzate con le dure armi i petti inerti, o Itali? A voi stanno piuttosto a cuore le tazze ricolme di vino».

      E poichè ho accennato ai convivii per dispendio e per lusso quasi favolosi dei tempi dell'Impero, mi sia lecito di contrapporre a quel quadro questa descrizione, che un contemporaneo fa del pranzo dato nel 1395 da Gian Galeazzo in Milano, quando ebbe il titolo di Duca:

      Dopo non fu più portato nulla.


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