Il Vino: Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880. Autori vari

Il Vino: Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880 - Autori vari


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corpo, ed Imeneo guidava

      Ai forti sposi non balene o stringhe,

      Ma sostanze di vita.

      Gozzi, Sermoni.

      Ora immaginiamo noi, avvezzi a centellinare nei calicini microscopici, di che badiali circonferenze di pátere abbisognassero quegli eroi, per accompagnare di tali bocconcini.

      Ma ecco che l'argomento mi conduce a far parola del sollazzevole Bacco, spensierato re dei conviti e provocatore dei tripudi chiassosi ove troppo sovente la ragione si annega spontanea nei bicchieri ricolmi. Qui davvero il mio tema minaccia di diventare inesauribile: e non sarebbe certo cosa priva d'interesse lo studiare i costumi variissimi dei popoli per rispetto alla maniera del bere e alle cerimonie usate in così fatte circostanze, e anche agli utensili diversamente adoperati all'uopo; nè gli scrittori ci sono avari di notizie a questo riguardo. Ma oltre che un siffatto studio mi condurrebbe troppo in lungo, io credo che sia in ogni modo sufficiente all'illustrazione del mio soggetto l'accennare con qualche minutezza agli usi speciali che vigevano presso i Greci e i Romani, appo i quali il lusso della tavola vide ciò che è ultimo nello sfarzo, nella raffinatezza e anche nella corruzione.

      Ma non voglio tacere anzitutto delle feste in onore di Bacco, le quali in breve andar di tempo si moltiplicarono per modo da poterne appena ricordare i diversi nomi; ed è naturale che discorrendo di banchetti si citino queste solennità le quali si terminavano quasi sempre con un'agape pubblica o privata della quale non avevano certo mai a dolersi gli spacciatori di vino. Nei tempi più antichi di Grecia non erano in troppo grande uso le feste; e Aristotile scrive nell'Etica che non ve n'erano forse altre in allora che quei banchetti soliti ad apprestarsi in segno di gaudio universale dopo la raccolta delle messi e la vendemmia. Ma ben presto, come ho detto, per ragioni di varia natura e specialmente politica, in ogni città greca si istituirono pubblici spettacoli; e fu appunto da quel tempo che anche le feste di Bacco andarono via via moltiplicandosi, e per guisa che il padre Lieo ebbe, io credo, più giorni e solennità a sè dedicate che qualsiasi altro nume d'Olimpo.

      E di vero tra le feste di Bacco si annoverano le antiche, le nuove, le grandi, le piccole, le diurne, le notturne, le campestri, le urbane, le autunnali, le primaverili e via dicendo, a cui sono da aggiungersi i troppo famosi Baccanali che acquistarono in Roma al tempo del console Postumio una così trista rinomanza.

      Perciò che riguarda la tavola vuolsi da alcuno (e la cosa mi pare ben lontana dall'esser provata) che ogni uso di mollezza derivasse ai Greci dalla Magna Grecia ossia dall'Italia meridionale; mentre da prima erano la sobrietà e la parsimonia le doti comuni a tutti gli Elleni. Il fatto è che quanto più si risale ai tempi remoti tanto più noi ritroviamo, come è ben naturale, sbandita dalla tavola o piuttosto ignorata da tutti i popoli la raffinatezza dei pasti quotidiani: i quali si vanno invece arricchendo di morbide delicatezze a misura che penetrano nelle città la ricchezza, la coltura e le costumanze gentili.

      Da principio il pranzo greco consisteva tutto nel così detto deipnon, in cui nè la quantità, nè la ricercatezza dei cibi erano grandi: ma mutarono affatto le cose allorchè si aggiunse al deipnon la geniale appendice del simposio, che acquistando sempre col tempo maggiore importanza divenne infine la parte principale e più desiderata del banchetto.

      Una libazione, la quale si faceva invocando il buon Genio o Igea, l'Iddia della salute, poneva termine al deipnon e subito un'altra simile libazione dava passaggio al simposio. A questo venivano invitate anche persone che non avevano pigliato parte al pranzo, giacchè, come indica il nome stesso, nel simposio non doveva trattarsi d'altro che di bere, e perciò appunto venivano recati in tavola cibi eccitanti la sete. Quanto alla maniera e alla misura del bere, questa veniva per consuetudine regolata da un simposiarca o re del convito, che veniva eletto a questa temporaria dignità mediante il sorteggio dei dadi.

      E quantunque fosse costume di chiamare barbaro in Grecia chi beveva vino schietto, quantunque si usasse di mescolare l'acqua al vino nella proporzione di 3 : 1, tuttavia è da credersi che in sul finire del simposio nè l'orrore della barbarie, nè la venerazione delle vecchie costumanze potessero molto su quei Greci eleganti e delicatissimi, perchè la sala del triclinio non tardava a convertirsi nel teatro di orgie solenni. Dai piccoli bicchieri il simposiarca ordinava a mano a mano si passasse ai più grandi, si incrociavano in ogni direzione i brindisi, si invocavano i nomi delle etére e delle innamorate, e siccome durante il simposio si rappresentavano azioni sceniche e si succedevano le danze, ben tosto gli stessi convitati si facevano di spettatori attori e nella sala tutto era canto e tripudio.

      Talora il simposiarca incominciava un brindisi: tutti allora portavano il calice alle labbra e quindi con un moto uniforme, compassato, al tempo medesimo, deponevano sulle mense con un colpo sonoro, le tazze. Altri già ravvisò un avanzo di quest'uso nei moderni commersen degli studenti tedeschi, e si potrebbe raffrontarlo ancora colla challenge degli antichi Inglesi, la quale non altro era che una disfida al bere fatta press'a poco nella medesima maniera di quella testè citata.

      Ma appunto perchè gli inni allegri, le arguzie e la innocua allegria del simposio trasmodavano troppe volte in orgie pazze e immodeste, esso fu vietato da parecchie leggi in alcune città greche e particolarmente bandito, com'era naturale, dalla rigida Sparta e anche da Creta.

      Ma se alcune città lo cacciarono con ignominia, siccome corruttore dei costumi e ammollitore delle fibre, trovò il simposio ospitalità veramente regale nella massima fra le città che ebbero fama immensa nel mondo, in Roma.

      Quivi dovette mutare il suo nome, che venne tradotto alla latina in quest'altro di comissatio o compotatio: ma i suoi costumi rimasero i medesimi se non divennero forse più corrotti e più corruttori. Già sul finire della repubblica i discendenti di Quirino avevano posto nel più perfetto oblio le rape famose del Dittatore Cincinnato e la sobrietà meravigliosa di lui; che anzi si cominciavano ad ornare splendidamente i triclinii e a render liete le mense di cibi peregrini.

      I buoni Romani che poc'anzi avevano trovato prodigiosa la splendidezza di Cesare il quale aveva lor servito quattro differenti sorta di vino, arricchivano ora con grave dispendio le cantine da cui ricavavano poi le anfore del vino opimiano di cent'anni per le orgie della comissatio.

      E siccome su 80 località produttrici di vino famoso presso gli antichi, circa due terzi erano Italiane, così venivano prodigati sulle mense romane il Sorrentino, il Falerno, l'Albano, il Setino, il Cecubo, il Massico, il Capuano, il Tarentino, ed altri molti.

      Ben presto in Roma la sfrenatezza dell'orgia e l'incredibile fasto dei prandii non conobbe più limite e basta per esserne convinti leggere quella fina satira che però dipinge così al vivo il corrotto costume, cioè il Convito di Trimalcione; basta leggere quel che scrive Cicerone in una delle sue Verrine, in cui paragona la sala del convito dopo la comissatio a un campo di soldati dopo la battaglia.

      Ma io non farò che accennare come non differisse quasi nella forma la comissatio latina dal greco simposio. Anche nei triclinii romani i convitati vestivano una tunica speciale, cingevansi il capo e talora anche i piedi di rose convivali, eleggevano coi dadi il Rex convivii.

      «Bene tibi, vivas!» — gridava un banchettante volgendo il capo al suo vicino, e questi accoglieva e ripeteva il brindisi, mentre lo schiavo coppiere stava intento dietro di lui a riempirgli la tazza vuotata. E altre volte, come abbiamo da Marziale, i convitati si figgevano in capo di tracannare tanti bicchieri quante lettere aveva il nome della propria innamorata, e fortunato allora — o disgraziato — chi ardeva per un'Amarillide o per una Domitilla!

      Nel vino, secondo che si ricava da Ateneo e da molti altri scrittori, usavano mescolare sostanze aromatiche, e mastice, e assenzio e fiori e persin della pece onde il così detto vinum picatum, il quale però non era gran fatto apprezzato; e bevevano anche vino di oltre due secoli, che per l'estrema vecchiezza si era convertito in una specie di glutine aderente alle anfore, che veniva sciolto per mezzo dell'acqua bollente.

      Non mancavano nella comissatio le rappresentazioni sceniche, ma non pare che i Romani imitassero i Greci nel pigliarvi parte; o più gravi o più avvinati o forse meno artisti, si contentavano di farla da spettatori, finchè l'orgia invereconda non


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