La lanterna di Diogene. Alfredo Panzini
non so se tuo buon grado o mal grado — su l'estremo pinnacolo a guardare questa città, che si fa sempre più rumorosa e più grande: troppo grande e superba per l'umile anima mia. Ero dunque padrone del moto, e ne gioii come di un'insperata fortuna.
Con prepotenti squilli mi diedi ad avvertire la gente del mio passaggio, e la gente mi guardava. Io non so se facevo strani gesti, ma certo so che col pensiero dicevo: «Andatelo a dire come si fa a guarire della nevrastenia!»
Quando, finalmente, l'incubo delle case disparve, disparve la gente densa, e vidi (oh meraviglia, come di oasi al navigante del deserto!) le alte siepi di acacie coi bianchi grappoli odorosi, e sentii le acque mormoranti per il verde piano lombardo, una freschezza forte e giovane mi alitò nel cuore. E mi rifiorì nella memoria il ricordo della gioia che inebriava i miei quindici anni quando pur di luglio, nelle vacanze, lasciavo quel regio domicilio coatto che fu per me il collegio.
La differenza tra allora ed ora era tutt'al più questa, che allora il mondo materiale prendeva stupende proporzioni eroiche; i malfattori abitavano quasi tutti in carcere; e mi pareva impossibile che un uomo, fornito di grave aspetto e di rispettabile barba, non avesse dovuto avere dentro anche un'intelaiatura di ferro, come gli eroi di Gualtiero Scott, il mio autore preferito.
Più tardi mi venni persuadendo che in commercio è più usato il cartone dipinto. Me ne accorsi un poco per volta, eppure anche ora me ne duole.
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Dunque mi congratulai con me stesso di avere conservato in su la soglia dei quarant'anni alcune facoltà illusorie della adolescenza, per le quali il mondo appare molto giovane e ridente.
Sì, è molto bene conservare nel lago del cuore una goccia d'acqua non inquinata, un po' di infantile freschezza di spirito per cui si assaporano le umili ingenue cose, nel modo medesimo che uno stomaco sano fa trovare saporite le rusticane vivande.
Io perciò sentivo in quel principio del viaggio il caro fiore della giovinezza olezzare ancora sul mio dispregio del mondo, come un cespo di viole a ciocche sparge la sua chioma odorosa sopra un cumulo di miserande ruine.
Se non che, attraversando il bel corso di Lodi, fui richiamato alla realtà potente. Essa era rappresentata molto bene da un mio collega.
— Come mai a Lodi? — domandai.
Mi rispose:
— Sono commissario agli esami. Credi — e non aveva bisogno di levare le palme al cielo perchè la verità era testimoniata dalle occhiaie infossate e dal suo pallido volto — credi, sono esaurito.
— Fra poco riposerai anche tu, — diss'io.
— Sicut et in quantum, mio caro. Capirai che se nelle vacanze lascio Milano, quel po' di lezioni private me lo portano via gli altri. Beato te che puoi scappare come uno scolaretto in vacanza.
Così ci lasciammo: io verso la libertà della campagna, egli, ancora, verso quel massimo propulsore delle umane azioni che è il denaro. «Posso!» e chi te lo dice? — meditavo fra me. — «Voglio!» E chi di noi due è più savio?
Bene io ero convinto della bontà della mia strada verso la libertà; ma quando tutti voltano verso occidente, come è difficile camminare da soli verso l'oriente!
E la bicicletta andava assai lentamente, perchè l'anima mia era adesso attanagliata da questo pensiero: «Oimè misero! inutile o illogica cosa dichiararsi dispregiatori delle cerimonie della vita. Ecco: bisognerebbe o essere milionario, o essere come Diogene, il quale buttò via la ciotola di legno quando vide un pastore far giumella delle mani per bere; e aveva per appartamento una botte, la quale fu onorata da Alessandro il Grande nella sua intervista col filosofo; e se ne andò senza imporgli la tassa del locativo. E poi nemmeno! Il milionario non godrebbe niente se gli mancasse l'invidia del popolo. E Diogene? Diogene in fondo era un vanitoso superbo! Io ho un bel disprezzare la faticosa, chiusa operosità di quel mio collega; io ho un bel deridere il lavoro umano! Ma il mondo va avanti per effetto del lavoro, e un grande lavoratore influisce su gli altri uomini come il nobile destriero, che passando veloce per la via, costringe tutti gli infingardi somieri a levare il trotto!
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Questi pensieri erano assai melanconici, ma per mia fortuna mi venne incontro la vista di un cimitero.
I cimiteri in Lombardia sono molto gentili. Essi non sono appartati per un sentiero che devia dalla strada maestra; ma si incontrano lungo la via: non sono circondati da un muro alto e chiuso, ma il muricciolo che li recinge è basso e concede a traverso ampi trafori di scorgere tutto il camposanto; nè mancano leggiadri adornamenti dell'antica arte muraria di Lombardia.
Questa disposizione dei cimiteri invita a soffermarsi e guardare. Così a chi percorre la campagna lombarda, accadrà spesso di vedere solitarie figure umane, inginocchiate e immote a pregare e conversare coi loro morti.
Caro collega, che riprendi come una macchina motrice il tuo lavoro, qui tutto ha fine, o milionari o Diogeni, e il resto è silenzio.
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Che piacere quando giunsi alle rive del Po! Era un antico voto che scioglievo. Sa Iddio quante volte lo passai, ma sempre in treno, quel bianco Po, lento, fluente tra il meandro azzurro dei pioppi evanescenti. Ma il fragore del treno che fuggiva tra le sbarre del ponte, faceva evaporare ogni fantasia. Ora avrei potuto fermarmi, o Po, in mezzo alle tue acque, sul ponte di barche. Mi fermai infatti a dispetto delle zanzare, che quivi sono molte e feroci, e attesi se per le acque lontane giungesse alcuna voce di antica epopea, alcun sospiro dell'idillio di Aminta, in cui tu esalasti l'anima giovane, o Torquato! Ma il castello Estense di Belriguardo non è più! Ad un tratto la scena mutò. Le bianche acque si erano fatte vermiglie: il sole tramontava; ma ciò non parve effetto del sole: parve invece che quelle acque rosse fossero come un fantasma dell'umano sangue che tu lavasti, o Po, nel corso dei secoli.
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Il riposo della notte a Piacenza non fu molto riparatore.
Per dormire bene, bisogna spegnere, come fa il sacrestano nelle chiese che smorza tutte le candele dell'altare maggiore: spegnere tutte le idee. Ma quando con lo spegnitoio della volontà si soffoca un'idea, e poi si vede che se ne accende un'altra da sè, e le fiammelle risplendono, si levano, ondeggiano come fuochi fatui e non si possono raggiungere con lo spegnitoio, oh, allora è un gran brutto voltarsi nel letto!
Cara, allora, è la notte estiva, perchè breve è la mancanza del sole; il quale, oltre alla virtù di far crescere la spiga, ha quella di ridurre la vista delle cose alla proporzione della realtà, e dissipare i fantasmi.
II. Effetti del Lambrusco.
A dispetto della notte agitata, quando al mattino lasciai Piacenza, ancora immersa nel sonno, in me squillavano alcune allegre diane di forza e di speranza.
In che? e perchè?
In nulla e per nulla.
Sono effetti bizzarri che il sole sorgente produce sull'organismo quando i polmoni si dilatano all'aria mattutina.
Sino a Fiorenzuola d'Arda mi accompagnai con un ciclista tardigrado, che andava bene con me. Era un impiegato piacentino che si recava regolarmente ogni domenica mattina a trovare la moglie in cura a Salsomaggiore. Il suo pedale andava placido come la sua voce, la quale si compiaceva nello stendersi della gòrgia natia alla fine di ogni parola.
Egli mi parlò anzi tutto della sua signora e dei gran benefici che ella ritraeva da quei bagni salso-iodici; quindi intraprese la storia circostanziata dei conti decaduti di Piacenza. Giunti a Fiorenzuola, ne aveva passati in rassegna cinque, ma pareva che avesse materia per più lungo viaggio. Fortunatamente a Fiorenzuola egli sentì il bisogno di fare un primo spuntino; con la qual cosa non soltanto soddisfaceva ad una richiesta dello stomaco, ma — siccome era in anticipo — desiderava di perdere quel tanto di tempo che era necessario per arrivare a Salso all'ora precisa del pranzo. Doveva essere un uomo prudente costui,