La lanterna di Diogene. Alfredo Panzini

La lanterna di Diogene - Alfredo Panzini


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ciclista invece che mi si accompagnò fino a San Donnino, apparteneva all'ordine dei treni direttissimi: era un giovanetto, commesso di negozio, il quale era partito il mattino stesso alla punta del giorno da Milano, e andava anche lui a Salsomaggiore.

      — Non faccia complimenti, vada pure avanti, perchè il mio passo, come vede, non è da mettere col suo, — gli dissi.

      — Ma no, — rispose, — andiamo insieme: io rallenterò un poco la corsa, tanto più che non ho fretta.

      — E allora perchè si è presa questa scalmana di venir da Milano come un treno lampo? — domandai.

      (Oh, stupida domanda la mia! Ma per i giovani l'andare in fretta è cosa naturale come per i vecchi l'andare adagio. Pare impossibile quanto spesso noi facciamo una questione morale di una questione puramente fisiologica!)

      La proposta del viaggio insieme non mi sorrise molto: guardai quelle potenti leve delle sue gambe lunghe, quella moltiplica esagerata della sua bicicletta, e sospirai. Eppure, o fosse effetto dell'esempio — come avviene agli asinelli — o beneficio della strada che corre ondulando in lievi e lunghe discese e salite, o miracolo dell'ora e della stagione, il fatto è che percorsi anch'io di volata quei venti chilometri.

      Era la dolce terra, erano i verdi colli, le ombrose ville, le borgate, i lontani castelli ammantati a festa come per farmi piacere e persuadermi sempre di più del grande amore della madre natura. (Rettorica! quando avrà bisogno per i suoi affari della tua morte, la proverai la buona madre natura!)

      — Ma lei è un routier di prima categoria, — mi disse il giovane commesso, — e per un uomo di quarant'anni non è cosa comune.

      — Trentanove, signore! — corressi (oh, vanità!) e augurataci buona fortuna, egli per Salso, ed io seguii per la mia strada.

      *

      Or dunque mi congratulai ancora con me stesso e con le umili membra che mi avevano serbata questa cara sorpresa fuori della loro primavera. Le lontananze del paesaggio sfumavano nel vapore dell'aria, già radiosa di sole; la strada sotto quel bagliore abbacinava la vista. Eppure che bell'andare! Presso la strada, qualche villa o castello, profondamente sommerso nel verde opaco del parco, mi faceva l'effetto che un sorbetto produce ad un assetato; e tuttavia non riposai a quelle ombre allettatrici, anzi mi fu piacevole il proseguire, e proseguii tutto solo in uno stato d'ebbrezza, che non proveniva da liquore o da vino, ma dal sole e dalla libertà, i due inebrianti che non fanno male. «Quanti bei nomi — andavo fantasticando — ebbero le antiche età per significare questa ebrezza dell'andare liberi, senza orario e senza legge: i romei, i cavalieri erranti, i clerici vagantes, i trovieri; e Iddio — o pensiero luminoso! — fece il mondo rotondo perchè uno può girar sempre e illudersi di andare avanti, anche se torna sui suoi passi.

      I santi e i santuari nell'evo medio servivano a questo sport. San Giacomo di Gallizia, il tempio di Gerusalemme, la santa casa di Loreto, ecc., corrispondevano agli odierni Ostenda, Aix-les-Bains, Spa, Saint-Moritz, ecc.

      Però anche allora non mancavano quelli i quali pigliavano per meta dei loro pellegrinaggi delle madonne di carne, invece che delle madonne di legno. Jaufré Rudel usò la vela e il remo per vedere il bel volto di Melisenda, di là dal mare; e messer Guido Cavalcanti si fermò a mezza via in Provenza presso la Mandetta. Oggi vi sono i globe-trotters; vi sono gli automobili. Troppa roba inamidata, troppa moda anglo-americana, troppo puzzo di benzina e di dollari. Preferibili le figure antiche «dai portamenti e dagli aspetti strani», figure confuse, tra il sogno e la realtà.

      Ecco quei che le carte empion di sogni:

      Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,

      Onde conven che 'l vulgo errante agogni.

      Vedi Ginevra, Isotta e l'altre amanti

      E la coppia d'Arimino che insieme

      vanno facendo dolorosi pianti.

      «Bravo! — dissi a me stesso, — eccoti a far ancora della letteratura».

      «Sì, va bene, — risposi a me stesso, — se non che questa litania petrarchesca che pare così monotona, letta in una scuola, col registro delle classificazioni da vicino e gli scolari di fronte, recitata ad alta voce, fra i campi, correndo, fa un altro effetto! Questi sono fiori vivi!» Le alte piante assentivano. E così seguitai a cantare il Petrarca; e così vidi il sole girare tutto l'arco del cielo; così passò Parma, passò Reggio, dalle vetuste mura; e l'umile duro pane, spezzato presso qualche osteria di campagna, mi parve saporito più di ogni ricercata vivanda. Perchè io evitai le città, nè mi fermai in esse: le grige mura mi avrebbero ricordato le morte età, le vane opere delle generazioni umane. Oh, più sapiente tu, o Terra! Tu riassorbi ciò che, da te prodotto, si muore, e ne ricomponi le giovani primavere.

      Passare attraverso un corso; veder la gente che ancora decifra il giornale; leggere le scritte della civiltà: «Ufficio del Registro», «Conservatoria delle Ipoteche», «Monte di Pietà», «Banco di Sconto», «Tribunale», «Provveditorato agli studi», ecc., avrebbe precipitato nel vuoto, disciolto tutta quella fiorita di fantasie.

      E fu così che ad un certo punto m'accorsi che il sole andava perdendo nell'intensa sua luce, e la grande pianura Emiliana largamente si discopriva nel vespero riposato. Chi percorre la linea da Piacenza a Bologna, trasportato dal treno, non ha nè meno un'idea della bellezza maestosa e molle di quel paesaggio, da cui sorge, con l'insorgere dei colli e dei monti lontani, l'imagine della Patria.

      Cadeva il sole dietro un gran piano verde, quando giunsi ad una borgata tranquilla. Sopra gli spaldi di un antico castello sorgeva una villetta moderna, circondata da oleandri. Dietro il castello si dilungava una mansueta fila di umili case, sorrette da portici.

      — Che paese è questo? — domandai ad una donna che falciava l'alta erba presso la siepe.

      — Rubiera!

      «Qui è bene riposare la notte», dissi fra me.

      *

      Ora in quella dolcissima sera, così solo solo come era in quell'alberghetto di Rubiera, io mi sentii preso da un mio antico e nobilissimo male.

      Questo male consiste in una specie di animazione del paesaggio materiale, da cui viene fuori la storia, la quale mi canta di dentro una certa nenia eroica, ed ha per effetto di farmi piangere.

      Si badi bene che io parlo di lagrime autentiche, non di quelle lagrime che si mettono agli angoli dei capitoli dei libri (come gli accattoni di mestiere agli angoli delle vie) e fanno tanto piacere a molti lettori.

      — Se è così, — dirà alcuno, — è molto probabile che voi abbiate bevuto quella sera: il vino fa cantare, e qualche volta anche piangere.

      No: io me ne ricordo bene: io non aveva ancora bevuto. Bensì è vero che l'ostessa (una formosa donna) mi aveva messo davanti al piatto una bottiglia di Lambrusco; ma era ancora da sturare. Piuttosto la causa io attribuisco a due versi di Dante (lo so, ci siamo ancora con la letteratura!) che mi spuntano nella mente ogni tanto, in certe occasioni, ed operano in un modo strano, come già il canto pastorale del Ranz des Vaches su gli svizzeri del tempo antico, quando essi erano più sensitivi e meno albergatori.

      I versi sono le semplici parole che Dante fa pronunciare a Pier da Medicina:

      Se mai torni a veder lo dolce piano

      che da Vercelli a Marcabò dichina....

      Piangere per così poco è pazzesco, pur concedendo un'emotività patologica; eppure mi è avvenuto. La spiegazione del fenomeno dev'essere questa che sono per dire o qualcosa di simile: Pier da Medicina, che è nell'Inferno, vede tutto il paesaggio d'Italia e allora — benchè tardi — comprende che in questa dolce terra si poteva vivere un poco più da galantuomini. Pier da Medicina non è detto che pianga; ma è supponibile. Chi piange sul serio è Guido Dal Duca. Eppure lo aspetta il Paradiso! Ma più che il Paradiso non lo consoli, gli stringe il cuore il ricordo della sua dolce terra latina. Ma oltre alle ombre di Dante, ci furono ancora degli uomini vivi e veri che piansero vedendo che questa nostra patria non fu mai «senza guerra»,


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