La lanterna di Diogene. Alfredo Panzini
sporchizie sui più nobili conviti. Passarono i grandi vivi, come le ombre, ma il volo delle loro anime si libra tuttavia su questa dolce terra latina; l'aria ne è mossa, e fa vibrare l'anima nostra: e allora si piange per il desiderio di un futuro che non verrà mai, nel modo stesso che Guido Dal Duca pianse per un passato che non tornerà più!
Questo bizzarro fenomeno di sentirmi sorgere le lagrime per così poco mi accadde in modo più memorabile la prima volta che fui a Superga.
Ma conviene pur dire che io capitavo a Superga, arrivando direttamente dalla Svizzera.
Quivi avevo percorso molte terre sull'alto di quelle ammirevoli berline, davanti alle quali vorrei condannare in contemplazione i postiglioni e gli impresari dei compassionevoli trabiccoli cellulari, che col nome usurpato di diligenze, percorrono il nostro Appennino.
Viaggiavo per diletto, eppure una nostalgia infantile, insanabile, di bimbo staccato dalla madre, mi era penetrata nel cuore e cresceva sino ad intorpidire la volontà e ottenebrare ogni fantasia. «Ma che uomo sei tu? — domandavo a me stesso, — ma non hai tu vergogna?» Eppure non riuscivo a vincermi. «Questo, — dicevo, — è il mondo dei monti senza fine: scenario eterno, uguale: valli che sono baratri; falde di smeraldo che salgono a nascondere il cielo; selve di pini neri come funerali; falde di neve come sudari; abitanti grevi come un popolo di gnomi; case di larice nero, senza sorriso. Azzurro cielo, terra che palpiti fra i due mari, dove sei tu?»
E mi allontanavo sempre di più per l'acre diletto di sentir crescere questo spasimo puerile, e poter quindi godere tutta la voluttà del ritorno.
Con che gioia, a Goeschenen, scendendo giù dall'orrida Furca, scopersi in una sottile, impercettibile nera pianura, i binari della ferrovia! Dunque esiste la via del ritorno, la magica via che sprofonda, trapassa i fieri monti, digrada come volo d'aquila, e le terre ridenti le muovono incontro: oh! ecco un suono italico, ecco una pianta italica, ecco dei ferrovieri un po' sudici, ma che parlano, che ridono, che bestemmiano almeno!
Come si vede, la mia ammirazione per l'armonia e la disciplina teutonica era consumata, e tutti quei verboten, mi avevano inimicato alla legge. Popolo alquanto sudicio è il nostro, indisciplinato; ama, purtroppo! di portare il coltello in tasca come il garofano ed il basilico all'orecchio. Eppure ride e sorride così umanamente, e la sua parola talora è così gentile e bella, così vivo e ardito è l'aspetto che pare peccato il non aver fede nella sua purificazione e resurrezione.
Quando salii il colle di Superga cadeva il sole del luglio, anche allora.
Fra me e la cerchia cinerea delle Alpi correvano i fiumi come trame argentee di un abito di fata invisibile: invisibile la fata, ma il dolce piano — dall'alpestre roccia onde, Po, tu labi e su cui l'aquila stride — alla torre di Teodorico presso il dolce mare, tutto si discopriva; molto con gli occhi, molto più con la fantasia si discopriva: onde io cominciai a ripetere: «lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina». E lo andava dicendo quel verso come una devota orazione.
E allora anche quella gran mole, lì presso, delle tombe dei re di Savoia mi si trasmutò in una bella e nobile fantasia; e confondendosi con i guerreschi monumenti che sono in Torino, io vidi una ferrea spada sopra a quell'Alpe per difesa di quel dolce piano che Dio sembrò aver creato per la pace e la felicità degli uomini, e gli uomini trasmutarono nel campo prediletto della loro sanguinosa guerra.
Così io era assorto e a stento chiudeva il varco alle lagrime, quando una voce, proprio di quelle inarmoniche voci tedesche a scala fonetica crescente, mi scosse da quel sogno, domandandomi:
— Questa è Dora Riparia?
Rivolsi gli occhi: un placido teutonico dalla barba dorata, stava vicino a me: una mano teneva il Baedeker, l'altra indicava i fili argentei dei fiumi, che oramai si perdevano nelle ombre del lento crepuscolo.
«Al diavolo te e il tuo Baedeker», dissi mentalmente: ma come meglio fissai il mio interlocutore vidi che due azzurrissimi occhi a fior di testa mi guardavano. Pensosa e nobile era quella fronte teutonica. Egli attendeva umilmente risposta alla sua domanda.
— Questa è Dora Riparia?
Supponendo che la Dora Riparia fosse per lui uguale alla Baltea, indicai quel fiume che meglio si distingueva.
Rispose con un crazie pieno di profonda riconoscenza.
— Grazie, — dissi io, correggendo per effetto di antica abitudine.
— Oh, grazie, signore; niente crazie, — mi replicò con profonda effusione, questa volta. — Io, — proseguì egli, — Rudolf Meyer, professore di Gymnasium, venuto in Italia anche per imparare italiano. Dimandare sempre: Come dicete voi questo?
— .... dite....
— Ah, sì, dite! Domandar sempre, ma nessuno correggere....
— .... quando sbaglio.... — suggerii.
— Oh, sì, quanto spaglio, ma dire tutti: «dicete come ti piace!»
(Onesto teutonico, — pensai fra me, — questa non è soltanto la terra degli aranci, ma anche del «dicete e facete come ti piace».)
Tuttavia proseguire più oltre nel discorso non era possibile, perchè il mio vocabolario tedesco era così ricco come il suo di vocaboli italiani. Fu egli allora che, appiccicatomisi per riconoscenza dell'indicata Dora, mi propose di parlare latino.
Questa proposta mi lusingò perchè evidentemente io dovetti sembrargli uomo erudito e per bene, benchè il mio abito fosse molto negletto. Veramente anche lui, con quel soprabito mezzo verde, dalle cui falde venivano fuori due piccoli calzoni, sospesi sopra due scarpe da montanaro, non era molto elegante. Lusingato dalla sua penetrazione, mi sentii indotto a considerarlo come uno degli ultimi rappresentanti di quei germanici azzurri, imbevuti ancora di filosofia e di ideologia, i quali vanno lasciando il posto ad altri nuovi germanici, mercanti e guerrieri: anima dell'antico Arminio, che risorge. E più mi persuasi che egli fosse un gentile teutonico quando mi disse che con la venuta in Italia scioglieva un lungo suo voto.
Il latino ci affratellò. Che latino fosse, non rammento. Merlin Cocaio rideva di gusto: il già mio maestro, G. B. Gandino — dall'Eliso ove ora dimora insieme con Cicerone — crollava il capo protestando; ma latino doveva pur essere giacchè ci intendevamo; anzi, accalorandosi il discorso, le parole vennero fuori dai nicchi chiusi della memoria più fluide che io non avessi mai supposto.
Fra i miei periodi ricordo questo: «Noli in isto ostrogotico Bèdeker quaerere Italiam, domine professor: hic nomina tantum continentur; anima rerum non continetur. Poetae nostri humanissimi erunt tibi handbuck optimi: Dante, Manzoni, Carducci».
Il buon teutonico, ricordo, aprì il volto ad un sorriso pieno, sereno, quasi infantile. Si discese in compagnia a Torino e si propose di cenare insieme.
Io, per cortesia, mi proffersi di andare all'albergo ove egli alloggiava; egli dove io alloggiavo. Curiosa insistenza da ambedue le parti! Infine egli chiaramente dichiarò:
— «Domine professor, caupona ubi sum hospes, admodum humilis et misera est. Non more divitum et publicanorum, sed more clericorum errantum iter in Italiam suscepi. Philosophia in Germania tenuem victum parat». Povera e nuda vai filosofia, «scriptum reliquit Petrarca vester humanissimus».
— «Domine professor», — risposi sorridendo, — «Minerva italica multo crudelior nam suis subiectis cibum ori appropinquat sed non satiat: bonos negligit, protervos adiuvat».
Dopo questa reciproca confessione acconsentì di venire al mio albergo, umile sì, ma con cucina e cantina meritevoli di ogni elogio. Eravamo soli in una discreta stanzetta, e, a marcio dispetto della «philosophia» teutonica e della «Minerva italica», si mangiò bene e si bevve meglio, e dopo cena io declamai del Manzoni la bella stanza:
Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
con quel che segue, e del Carducci alcune strofe dell'ode al Piemonte.
Il tedesco era entusiasta e pareva capire benissimo.