La lanterna di Diogene. Alfredo Panzini

La lanterna di Diogene - Alfredo Panzini


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cioè se i muscoli erano elastici, secondariamente se il cervello era ancora elastico, tale cioè da lasciarsi impressionare ben forte non solamente dalla magnificenza delle cose presenti e viventi, ma anche da vedere tutte vive le cose trapassate ed occulte e sentire prossime le cose future.

      *

      Questa specie di ampio sentire può dare ad un uomo l'aspetto esterno come di un rimminchionito. Certo è la più voluttuosa delle ebbrezze; sebbene non abbia nulla a che fare con quella che si compra nelle botteghe dei liquoristi. Però non mancano certe somiglianze apparenti, giacchè le idee più bislacche cominciano a parere logiche, gli atti più stravaganti, assai naturali; così che un ubbriaco di assenzio mal si distingue da un ubbriaco per latte come io ero.

      Per fortuna la gente si faceva rada, le querce frequenti.

      Questo stato dell'animo ebro e luminoso si venne in me formando a poco a poco, ed io ne esaminavo il rapido concretarsi con il piacere con cui una massaia — che ha molti ospiti cari — nota il ben formarsi della crema sul fornello. (Conserverò questa crema per i giorni della carestia: questa luce per i giorni bui.)

      E primo segno fu il cessare della stanchezza, e quando giunsi ad un punto in cui la via spianò — si stendeva ondulata lungo una serra — e potei montare in bicicletta, e sentii l'aria forte ventilare e vidi la bianca via passare sotto le gomme delle ruote vibranti all'impulso, provai il piacere di don Chisciotte quando esperimentò la straordinaria agilità di Ronzinante.

      Che ora era? Una delle ore del mattino. Le case si facevano più rade, più di colore e d'aspetto alpestre, più rari gli uomini, più dolci e mansueti gli occhi dei bimbi. Un secondo casàro, che versava nell'ombra silenziosa il latte, mi parve un sacerdote che adempie un rito antico di libazione; e poi vidi venirmi incontro una trionfale fiorita di ginestre, fuor dalle asperità della roccia, tutto lungo la via.

      Questo piccolo giallo fiore è un fiore filosofo: sceglie per sua abitazione i luoghi dove la famiglia umana è meno frequente e non si lascia addomesticare nei giardini al servizio delle dame: a coglierlo si ribella, perchè i forti alti aculei verdi su cui cresce, a fatica si spezzano e il fiorellino antepone di cadere e morire all'essere divelto dal suo stelo: la sua anima esala più odorosa quando più caldo è il sole. La «rosa», la «viola», il «gelsomino» sono titoli per poeti soavi: «La Ginestra» è il titolo di un grande canto del penultimo nostro poeta profeta, di Giacomo Leopardi.

      Questo umile fiore potè a lui inspirare un testamento di verità e di fede a beneficio dell'uomo. Ed era in fin di vita, il nobile, il grande profeta, ed era ammalato senza speranza! E i libri dei letterati dicono che Giacomo Leopardi fu misantropo, scettico e pessimista. No, egli fu un santo! Crede il volgo che i santi siano soltanto quelli che portarono la tonaca del fraticello e subirono la tonsura. Che errore!

      Anche San Francesco era morente, sparuto, esangue, quando fra gli olivi soleggiati di San Damiano compose il suo Cantico al Sole.

      Cantano i cigni più dolcemente quando la morte s'appressa.

      Oh, siate laudate anche voi, anime grandi, e laudato sia il popolo d'Italia quando spezzerà i sigilli degli evangeli che i suoi santi a lui lasciarono per testamento!

      E dopo le ginestre vennero le querce!

      *

      Vidi nell'azzurro disegnarsi una famiglia di querce gigantesche: esse erano sole e contorte in maniera strana e ammirevole, come un pittore a fatica potrebbe imaginare senza modello; ed erano così coperte di muschio e di edere che pareano smeraldo nel turchese del cielo: e allora dal folto delle loro frasche si partì, ardito come freccia, un canto animatore di uccello: quindi esso apparve.

      Esso, l'uccello, si librò alquanto al di sopra delle fronde con le ali aperte, come sogliono i pittori foggiare lo Spirito Santo, e nell'aprirsi le ali scoprirono un bel colore purpureo. Veniva su dalle frasche della quercia, e tornava a nascondersi. Mi aveva l'aria di venir fuori a salutare il buon papà, il sole, il quale imbiancava, giù nella valle, tutto il corso sassoso del fiume Tiepido.

      Non mi ricordo bene quanto tempo stetti a contemplare quell'uccellino e quella quercia, ma qualche minuto sì certo; e nè meno ricordo quali pensieri formai, certo erano assai belli e profumati, e vibravano ogni volta che vibrava il canto dell'uccellino. (Che ampolla preziosa da aspirare nei giorni in cui l'anima si adagia inerte! Oh, che peccato che non si possano conservare dentro una scatola le bolle del sapone!)

      Ricordo però bene che tanto l'uccellino, come la quercia, come la ginestra mi parvero tanti docili figliuoli del buon papà, il sole; ed allora io li pregai perchè mi accogliessero in loro compagnia:

      — Frate uccellino! sorella quercia, accoglietemi fra voi!

      — Frate uomo, marameo! — mi rispose l'uccellino. — Sbollito l'entusiasmo, tu hai l'abitudine di metterci nello spiedo!...

      Mi vide, diè un trillo di paura, scappò.

      *

      E dopo l'uccellino venne la bella fontana.

      Mi rammentai di Tristano. E quando egli trovava alcuna fontana, vi si restava e cominciava a fare meraviglioso pianto!

      L'acqua di quella fontana — a cui giunsi — cadeva con un largo getto dalla roccia e si accoglieva in una gran conca di pietra, viscida per il muschio, entro una specie di grotta dove la frescura metteva un voluttuoso ribrezzo.

      Un carrettiere, solitario presso alla fontana, abbeverava un suo cavallo bianco.

      Il carrettiere mi ammonì:

      — È meglio che non beva, così sudato come è.

      — No, non bevo, grazie.

      Ma la fontana cantava così dolcemente e la pelle era così riarsa che le mani furono attratte ad immergersi nella vasca: ma sollevando quell'acqua che pareva nera e ricadeva tutta risplendente come un cristallo, provai così grande piacere che le mani chiamarono a quella voluttà i polsi, e i polsi le braccia, e infine non resistetti più alla tentazione e pregai il carrettiere che mi togliesse dal dorso la maglia, che era intrisa di sudore.

      — Che cosa vuol fare? — chiese egli stralunando gli occhi.

      — Mi voglio buttare lì dentro!

      — Ma è sicuro di non crepare?

      — Lo spero. Suvvia, datemi una mano.

      La cosa dovette sembrare molto pericolosa e nuova al carrettiere, tanto più che è notorio quanta avversione abbia la nostra gente per l'uso esterno dell'acqua. Egli obbiettò: io insistetti. Vidi che in lui lottavano due sentimenti: cioè il buon sentimento di salvare un suo simile da certa morte, e il cattivo sentimento di vedere un pazzo ostinato prepararsi alla morte: vinse questo secondo sentimento di curiosità, tanto più che io lo domandavo con tanta buona grazia. La sua coscienza tentò con un ultimo «Lo vuole proprio?» di liberarsi dal rimorso di essere complice di un suicidio. «Sì, presto!» ordinai io. E allora, «Andiamo!» disse.

      Quel carrettiere fu assai destro: col suo aiuto in pochi istanti mi liberai della maglia e di ogni altro indumento e così saltai con trepidanza e ardimento nella vasca. Era stata l'acqua ad attirarmi lì dentro, ed io avevo ubbidito alla sua chiamata, e non me ne pentii. L'acqua si impadronì subito di me. Mi sentii scivolare lungo le pareti viscide della pietra, e un senso di voluttà forte e gelida penetrò nell'interno e nel cervello, e si manifestò con un grido e un riso di gioia. Il carrettiere, che mi vide impallidire domandò: «Com vala?»

      Gli risposi naturalmente in greco antico: Ἄριστον το μεν ὔδωρ («ottima è l'acqua!» e dovrebbe essere il motto dell'idroterapia).

      Ma vedendo i suoi occhi tondi e la sua tozza persona, ebbi la visione di Sancio che ammira don Chisciotte eseguire una delle sue mirabili follie: il cavallaccio bianco, che era lì presso, diventò un'alfana candida e su di essa sedeva una maga; una maliarda, una delle tante che evocò o l'Ariosto o il Boiardo meraviglioso, di cui io su quei monti sentivo l'anima effusa, una maliarda bianca e tenerina, che mi dicea sorridendo, con la testolina inchinata:

      «Caro,


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