La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893. Autori vari

La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893 - Autori vari


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e politici coi Protestanti, si abboccò con Lutero e narrò il colloquio in una lettera mirabilmente efficace e caratteristica del 1535. In essa è ancora avverso a Lutero, ma non consentendogli l'acuto ingegno quel dispregio ignorante, che non fa caso di nulla nella Riforma Tedesca, nè di uomini nè di idee, perchè giudica tutto farina del diavolo, accadde al Vergerio, diplomatico Pontificio, di finir persuaso di molta parte delle nuove dottrine. Tornato alla sua diocesi applicò savie riforme e, aiutato dal fratello, Vescovo di Pola, le proseguì arditamente; ed in ciò fare non gli pareva se non di compiere il suo dovere di Vescovo. Processato due volte, respinto dal Concilio di Trento, la persecuzione, l'esilio ne fecero un eretico per forza, ma il moto da lui destato nell'Istria (caso unico in Italia) trovò gran seguito e favore nel popolo e perdurò quasi trent'anni. Quanto a lui, ad ogni passo poneva la meta più innanzi e dopo una vita agitata, errabonda, travagliatissima, finì a Tubinga nel 1565 rimanendo incerto anche oggi, se puramente aderì alla Riforma, se la sorpassò, o se presunse farsi centro ed autore d'un nuovo moto, che da lui solo pigliasse forma e sostanza.

      Meno persistente, meno larga, ma pure con un certo carattere di popolarità, che manca altrove, è l'agitazione religiosa di Modena, cominciata fra il 1537 e 38. Poco dopo, come apparisce dal compendio dei processi del Sant'Uffizio di Roma, pubblicato dal Corvisieri, Modena era già una città diffamata per eretica. Intorno all'anno 1540, Alessandro Tassoni il vecchio, cronista Modenese, narra che non solo uomini dotti, indotti e d'ogni condizione aderivano alla Riforma, ma persino le donne ne disputavano, citando a dritto e a traverso Santi Padri e Dottori, che non conoscevano neppur di vista. Quest'entusiasmo, com'è naturale, era cominciato più in alto, in una specie d'accademia, come il volgo la chiamò, che s'adunava in casa dei Grillenzoni, e della quale il personaggio più importante era Lodovico Castelvetro. La casa del Grillenzoni era un interno patriarcale, sette fratelli, dei quali cinque ammogliati e quarantacinque o cinquanta tra figliuoli e nipoti e, se le si univano amici e maestri, una vera falange, che talvolta stava a chiacchiera nella spezieria dei Grillenzoni, e quando si muoveva per andarsene pareva, dice un altro cronista, un branco di stornelli che si disperdesse. Si occupavano di studi umanistici, ma Modena è città arguta, beffarda; i chiacchiericci di spezieria eccitano i begli spiriti delle piccole città; sicchè i cosidetti accademici ebbero buon giuoco nel pubblico a burlare e a interrompere anche in chiesa i predicatori più triviali, esaltando invece il Ricci, l'Ochino, dotti ed eloquentissimi, ma già sospetti di deviazioni dalla pura dottrina ortodossa. Roma e l'Inquisizione si destarono; s'interposero i soliti pacieri, il Morone, Vescovo di Modena, il Contarini, il Sadoleto; fecero firmare agli Accademici una professione di fede e tutto per il momento parve quietato. Ma una burla fatta a Pellegrino degli Erri nella spezieria Grillenzoni risuscitò la tempesta, perchè a vendicarsene costui denunciò per eretici e per lettori e divulgatori di libri ereticali i suoi amici, contro i quali escirono tosto bandi fierissimi. L'Accademia si ecclissò; più degli altri rimase in vista come sospetto Lodovico Castelvetro, forse perchè il più autorevole per ingegno, per studi e per le tendenze della sua ipercritica letteraria, la quale tirò addosso a lui i guai peggiori.

      Nel 1553 criticò acerbamente la canzone di Annibal Caro in lode dei Farnese e dei Reali di Francia, che comincia coi noti versi:

      Venite all'ombra de' gran gigli d'oro,

      Care muse, devote a miei giacinti.

      Annibal Caro, cortigiano felice, col vento in poppa, colmo di prebende e d'onori, se l'ebbe a male. Ne seguì una delle più atroci baruffe letterarie che si ricordino, finita col denunziare il Castelvetro, prima come eretico, poi come eretico insieme e come assassino. Qui i fiori letterari del Caro, delizia dei buongustai, coprono una trama d'iniquità, di cui il Castelvetro fu vittima, perchè dall'accusa d'assassinio riescì a purgarsi, non da quella d'eresia. Citato a Roma, v'andò; durante il processo, fuggì: stette molti anni fra Chiavenna, Ginevra, Lione e Vienna; nel 1570 tornò a Chiavenna, ove l'anno dopo morì fra le braccia del suo amico e protettore, Rodolfo Salis, il quale sulla tomba dell'esule scrisse queste significanti parole: morto libero, liberamente riposa in libera terra. Pure siamo alle solite di doverci chiedere: fu veramente eretico e quanto lo fu il Castelvetro? Difficile rispondere fra lo zelo degli accusatori e quello degli apologisti. Le apparenze, le vicende della sua vita rafforzano il sospetto, ma manifestazioni precise mancano. Però quasi tre secoli dopo, nel 1823, in una villa prossima a Modena, stata già del Castelvetro, fu scoperto un ripostiglio murato, e abbattutolo si trovò pieno di carte manoscritte e di libri di Lutero, di Calvino e di altri eretici. Le carte furono consegnate a un dabben prete, che, saputele del condannato Castelvetro, le abbruciò; i libri passarono alla Biblioteca Estense e dalle date dei medesimi si rilevò, che il nascondimento risaliva al tempo delle persecuzioni sofferte dal Castelvetro.

      Questa voce d'oltre tomba, che esce fioca dopo circa tre secoli dai ruderi della sua vecchia casa, lo accusa dunque, ma, grazie all'imbecillità del pretino incendiario, neppur essa dice tutto; ci lascia solamente congiungere il nome di Castelvetro al piccolo movimento ereticale Modenese, e bisogna contentarsi di questo.

      Più aperto, più determinato nelle sue conseguenze è quello invece che contemporaneamente manifestasi a Lucca. Anche qui v'è un nome, che accentra e personifica il moto, Pietro Martire Vermigli, Fiorentino, che già vedemmo a Napoli nella congrega del Valdes. A metà del 1541 fu fatto Priore di San Frediano e avea intorno a sè uomini imbevuti anch'essi delle stesse dottrine, il Martinengo, Bresciano (che fu poi primo Pastore della Chiesa Riformata Italiana in Ginevra), il Tremellio, Ferrarese, lo Zanchi, Bergamasco, il Lazise, Veronese, ai quali s'aggiunse poco dopo Celio Secondo Curione, il più celebre dei Protestanti Piemontesi. Mezz'Italia è qui rappresentata e il Vermigli fonda una scuola, in apparenza pei novizi del suo ordine, in realtà una Scuola Protestante, che accolse altresì le più cospicue persone di Lucca. L'Inquisizione era sull'intesa e vigilava, ma tutto andò quieto, anche quando Paolo III e Carlo V s'abboccarono in Lucca. Un aneddoto curioso è che l'Imperatore fu svegliato una notte da gridi di dolore. Chiesta la cagione, gli è risposto che una gentildonna, dimorante vicino al palazzo, aveva partorito un bambino, che Carlo V per cortesia volle tener esso al battesimo, celebrando il rito Paolo III in persona. Questo bambino fu poi il padre di Giovanni Diodati, il celebre volgarizzatore della Bibbia. Se la paternità spirituale avesse gli effetti, che la scienza attribuisce alla paternità naturale, si direbbe che qui la legge dell'atavismo agisce al rovescio. Più sicura invece si mostra in Michele Burlamacchi, figlio del celebre patriotta e cospiratore Lucchese, perchè troviamo Michele Burlamacchi fra i Protestanti più caldi, ed in lui la ribellione religiosa si direbbe la continuazione e lo svolgimento della ribellione politica paterna. Fatto sta che quando l'Inquisizione ebbe costretto il Vermigli a fuggire e nella sua propaganda gli sottentrò Aonio Paleario, bruciato poi a Roma nel 1565, i rigori aumentarono a segno, che s'ebbe una prima emigrazione di più di venti cospicue famiglie Lucchesi nel 1555 e una seconda nel 1567, la quale comprese anche Michele Burlamacchi con la sua vezzosa donna, Clara Calandrini, il suocero Giuliano Calandrini con l'altra figlia Laura e il marito di lei, Pompeo Diodati, nonchè il fratello e gli altri figli di Giuliano. Giunsero in Francia durante la seconda guerra civile fra Cattolici e Ugonotti, e costretti a seguire le fortune dell'esercito del Principe di Condè, sarebbero periti fra gli stenti e i disagi, tanto più che Clara Burlamacchi e Laura Diodati erano incinte ambedue, se, saputili Italiani e proscritti per causa di religione, non gli accoglieva nel suo castello di Montargis, Renata d'Este, quella Duchessa di Ferrara, presso cui vedemmo già Calvino nel 1536 e che ora dopo la morte del marito, era tornata in Francia fin dal 1560 e vivea solitaria a Montargis, professando apertamente il Protestantismo.

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      Renata è una delle più singolari figure della storia della Riforma in Italia, e i fatti, che le si riferiscono, uno dei più singolari episodi di questa storia. Per opera di lei, figlia di Luigi XII, re di Francia, e venuta sposa nel 1528 ad Ercole II d'Este, la Riforma penetra in una delle più illustri corti Italiane del Cinquecento e la tiene per più di vent'anni agitata così nelle intimità domestiche, come al difuori e per indiretto nelle sue relazioni politiche col Papa e cogli altri Stati Europei. Era il periodo, in cui si dibatteva il problema, se la preponderanza nel sistema politico Europeo dovesse appartenere alla Spagna o alla Francia, ed il principal campo di tale contesa, ormai risoluta in favore della Spagna, era sempre l'Italia. Quindi la difficoltà pei suoi principati minori di reggersi in bilico alla meglio fra i due litiganti, nè già coll'illusione


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