La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893. Autori vari

La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893 - Autori vari


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terra i profanatori superbi, abbandonava il mondo cristiano alla mercede di un principe oltrepotente, che fatto più sicuro del papato romano, alle tradizioni dinastiche, allo spirito d'intolleranza, alle paure della coscienza sacrificherà le conquiste della civiltà, guadagnate a prezzo di sangue.

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      Prima e più largamente che altrove dall'Italia, che n'era stata la culla, se ne diffuse la luce alla corte di Francesco I. Che se il soffio della reazione, negli ultimi anni del regno di lui, preannunciò il turbine delle guerre civili, quale trionfo non ottenne in Francia sotto gli auspici del Re, lo spirito della Rinascenza! Giovanni Battista Strozzi, che passò l'inverno del 1537, a Parigi, e frequentò le sale del Louvre, quando ancora decoravano esternamente il severo palazzo, nell'imitazione dell'arte nostra, Giovanni Goujon e Paolo Ponce, scriveva a Filippo Strozzi: “Io mi trovo presentemente alla corte, dove non si fa altro che giostre, balli, banchetti e maschere, e pare il vivere d'Ottaviano.„ Fra le dame che la abbellivano: Caterina de' Medici, le amanti del re e del Delfino, la figlia del re, vigilava, pur sempre come angelo tutelare, Margherita di Navarra. Alle sue rare virtù, al suo virgineo candore, alla sua ricca cultura rendevano omaggio con eleganti epigrammi il Marot, il Ronsard, l'Alamanni, lo scettico Rabelais. Margherita, che si piaceva d'intrattenere le dame con la lettura dell'Amadigi, o del Boccaccio, quante volte non la interruppe per la Divina Commedia e per la Bibbia! Rivaleggiava con lei nel commentar Dante Gabriele Cesano, lei vide spesso col séguito delle sue damigelle nel laboratorio del Petit-Nêsle Benvenuto Cellini, corrispondevano con lei, animati dal suo stesso fervore religioso, Erasmo, Marc'Antonio Flaminio, Olimpia Morato. — E quel re bellissimo dall'occhio vivo e penetrante, che pur tanto amava le caccie, i balli, la compagnia con le amabili dame, che viaggiava con un traino di 10,000 cavalli, e vestiva sontuosamente, divideva i gusti e le inclinazioni della sorella. Il Rosso fiorentino e il Primaticcio gli decoravano il castello di Fontainebleau, il Cellini lo entusiasmava colle sue mirabili fusioni in argento, e metteva a cimento coi suoi capricci sovrani d'artista la sua pazienza, lui circondavano gli esuli fiorentini, che dalle nostre corti e da Venezia, ricevitrice d'ogni miseria, teatro meraviglioso del mondo, recavano in Francia le novità della moda, le raffinatezze della vita, le meraviglie dell'arte. — Contro le intemperanze dei teologi della Sorbona, che finirono per forzare la mano al Re contro gli eretici, battagliavano gli umanisti, amici di Erasmo, di Ulrico di Hutten, di Reuclin, e per opera del più attivo tra essi sorgeva in Parigi una università nuova: il Collegio di Francia. Gli studii severi del Budeo, del Dolet, dello Stefano non escludevano le creazioni geniali e grottesche del Rabelais. Egli che avea temprato ed educato in Italia, in mezzo ad una società più colta e più scettica della francese, il sentimento dell'arte, ne tentava proprio allora la felice caricatura. Raffigurasse o no Francesco I in Gargantua, la satira rabelesiana non si arresta certo alla canzonatura del re e della corte. Ricco teatro pe' tempi suoi di figure grottesche, il più burlevole e pazzo poema d'ogni letteratura, preannuncia sotto il velo allegorico le grandi riforme dell'avvenire.

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      Quanto diversa da quella di Francesco I, cui faceva capo così ricca fioritura d'arte geniale, la corte di Carlo VI! All'accesa fantasia d'uno dei più potenti coloritori dell'età nostra, essa riapparve nel giorno memorando, in cui la popolazione d'Anversa accolse festante l'Imperatore. Ma in quel quadro magistrale, che è tutta una festa di colori e di forme, Hans Makart non commemora Carlo V, ma scioglie un inno di gloria alle grazie femminili, all'eleganza del costume fiammingo! Per cogliere in qualche modo il carattere della corte imperiale non saprei immaginarmela che il giorno funesto, in cui il vincitore di Mühlberg, tristo e affranto dalla podagra, per sottrarsi alle insidie dell'elettor di Sassonia, lasciò improvvisamente Innsbruck, e traversata in lettiga, tra i rigori del verno, la Germania ribelle, raggiunse faticosamente le Fiandre. Nello scompigliato disordine di quella fuga precipitosa, noi possiamo raffigurarci quasi compendiate le trepidazioni, le ansie, i sospetti, che tormentarono, per lunghi anni, i ministri regi, i grandi prelati, i gentiluomini spagnuoli del séguito di Carlo V, nei disagiati viaggi ch'egli intraprese senza riposo da un capo all'altro del vasto Impero, per raffermare spesso una sovranità, che rafforzata oggi s'infiacchiva domani, e a cui le vittorie non giovavano meglio delle sconfitte. Tribù zingaresca di soldati feroci, di cortigiani servili, di frati fanatici, la corte di Carlo V finì per sdegnare le agiatezze della vita galante, il divino sorriso dell'arte. In essa si rispecchiò mirabilmente lo spirito d'una nazione, che alla gloria delle armi e al trionfo della fede sacrificava allora ogni altro ideale. E quale la corte tale il Principe. Di statura mediocre, pallido in volto, occhi insignificanti, naso aquilino, la sporgenza della mandibola inferiore e la prolissità del mento aggiungevano ai tratti della sua fisionomia una naturale severità. Di complessione robusta e fortificata da continui esercizi, Carlo V amava le armi, e i cimenti delle battaglie. Melanconico d'indole, modesto nei modi, e nelle vesti, parlava poco, e lentamente. Profondamente religioso, più tosto avaro che liberale, nemico d'ogni voluttà e d'ogni fasto, disamabile, talvolta vendicativo, egli ci apparisce quasi l'antitesi vivente dell'emulo suo. — Così la gigantesca lotta, combattutasi tra i due principi, potè sembrare ai contemporanei e a loro medesimi originata e nutrita in gran parte da odio personale, da rivalità dinastiche, da insaziata brama di gloria. Stipulato il trattato di Crepy, Carlo V fors'anche s'illuse d'aver finalmente in pugno la sospirata vittoria; ma i due campioni scesero, secondo noi, nel sepolcro nè vincitori nè vinti. La scomparsa dalla scena politica di Francesco I non impedì alla Francia di proteggere ancora i Principi protestanti della Germania, di coltivare in segreto l'alleanza coi Turchi; la soggezione miseranda d'Italia non disarmò i successori di Paolo III di quei sottili artifizi, coi quali fino allora aveano moderato la politica dell'Impero. Quante volte Carlo V, nella solitudine di San Giusto, non dovè ripensare alla fallacia delle previsioni umane, e se è vero ch'egli raramente ingannavasi nel pronosticare l'avvenire, come afferma Marino Cavalli, come tristi e sconsolati gli ultimi giorni della sua vita! Non l'alleanza col Pontefice, non il concilio di Trento, non l'umiliazione della Francia, non i roghi fumanti in tanta parte de' suoi dominii, non la rovina politica dell'Italia varranno a restaurare un passato senza ritorno, e tanto meno a fermare il corso del pensiero umano. — I vinti di Mühlberg, minacciosi ad Augusta, trionferanno a Münster in Westfalia, e prima che da per tutto si udrà dalla Francia, che lo spirito spagnuolo avea pure abbandonato al demone della tirannide religiosa, una voce di pace, promettitrice di libertà. Certo a Carlo V, non fu negato di assicurare per lunghi anni alla casa d'Absburgo e alla Spagna l'egemonia politica sull'Europa, non gli fu tolto di iniziare la restaurazione dell'edificio crollante del Cattolicismo; ma non era questo soltanto, signore e signori, il sogno luminoso della sua giovinezza.

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      DI

      ERNESTO MASI.

      Nel marzo del 1536 due giovani Francesi, partendo da Basilea, sotto finto nome e travestiti in modo da non dare nell'occhio e da non destare sospetti, attraversavano le Alpi al passo fra Coira e Chiavenna e pei territori della Repubblica di Venezia fra l'Alpi ed il Po s'avviavano a Ferrara.

      I loro nomi veri erano Luigi du Tillet e Giovanni Calvino.

      Questi aveva allora allora pubblicato a Basilea il suo libro, divenuto poi famosissimo, della Instituzione Cristiana e senza indugio s'era in compagnia del Du Tillet allontanato da quella città.

      La ragione di questo viaggio del celebre riformatore c'è data da Teodoro di Beza, il suo biografo, quegli che Calvino chiamava la perla dei suoi amici, il compagno indivisibile degli ultimi anni della sua esistenza, l'uomo fra le cui braccia Calvino morì, e c'è data con poche parole e per verità poco chiare. Dice in sostanza, che, pubblicato il suo libro, Calvino desiderò visitare la Duchessa di Ferrara, di cui tutti vantavano allora la somma pietà, e salutare alla sfuggita l'Italia. Venne, confermò, per quanto potè


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