La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893. Autori vari

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della politica, trovò il tempo e la voglia di sottomettere il suo pensiero al giogo della misura e della rima, emulando le glorie del Jamet e di Clemente Marot. Noi non potremo qui dare un quadro completo della vita di Francesco I negli anni ne' quali Luisa di Savoia, trepidando per il suo avvenire, ma pure intravedendo il destino che gli era serbato, procurò ch'egli acquistasse esatta coscienza del proprio grado e de' suoi futuri doveri. Troppo nota è del resto la storia dei suoi trascorsi giovanili, della sua veemente passione per madama di Chateaubriand, delle sue debolezze per mademoiselle d'Héilly, più tardi duchessa d'Étampes, per non riconoscere che non a torto i contemporanei gli rimproverarono di aver troppo spesso trasgrediti i consigli prudenti della madre, e più tardi sacrificato ai suoi capricci, alle sue passioni, con gli interessi della dinastia la dignità della Francia. Ma certo nei tratti salienti della sua figura morale, ne' suoi entusiasmi per l'arte, nel suo amore per il lusso e per il fasto, nelle sue virtù e nei suoi vizi rimangono così al vivo scolpiti i caratteri stessi di quella società spirituale, che prima che altrove in Italia preannunziò il rinnovamento della vita sociale, ch'egli acquista maggior diritto di Carlo V alla simpatia nostra, se anche pe' molteplici errori, per le funeste titubanze di una politica sleale ed egoistica, per l'abbandono ingiustificato e colpevole, in cui lasciò una gloriosa repubblica moribonda, noi cademmo vittime degli Spagnuoli.

       Indice

      La rivalità tra Francesco I e Carlo d'Absburgo è determinata infatti da un così complicato intreccio di tendenze morali, e di materiali interessi, che non era dato sempre nemmeno ai due antagonisti misurarne le conseguenze. Grave errore sarebbe imputare solo alle cupidigie loro l'asservimento d'Italia, e non riconoscere che noi stessi fummo artefici sconsigliati della nostra fortuna. Di quanto non si sarebbe, ad esempio, ritardato l'urto formidabile, di cui noi soli dovevamo pagare le spese, se i principi e le repubbliche italiane abbandonando la politica sospettosa e fedifraga seguita fino allora, avessero secondati gli sforzi generosi di Enrico VIII e del Wolsey per formare un'alleanza universale tra gli Stati cristiani! Se non che mentre nei campi dei drappi d'oro il Re inglese induceva a miti consigli Francesco I, e minacciava di abbandonarlo se avesse presa l'offensiva della guerra per far rispettare il trattato di Noyon, il Wolsey stesso si lasciava adescare dall'oro austriaco, e Leone X, che più avrebbe dovuto incoraggiare la diplomazia inglese, raggirava tutti con arti tenebrose, e per un fine non sempre evidente ai suoi stessi negoziatori. La difesa della politica imperialista di papa Leone è stata tentata di recente con dottrina pari all'ingegno; ma quante volte non si ammantano di ingannevoli idealità, i documenti ufficiali della diplomazia! Giulio de' Medici ebbe un bel difendere dopo la morte di papa Leone innanzi a Francesco Guicciardini quella complicata tela di raggiri e di frodi, quasichè il pontefice avesse mirato alla salute della penisola. Se egli trattò segretamente con Carlo V, e provocò di nuovo la guerra, dopo aver ampliato, con turpitudini d'ogni maniera, gli Stati della Chiesa, e minacciato il duca di Ferrara, non la preoccupazione del moto religioso in Germania, o le minaccie osmane ve lo aveano indotto, ma la insoddisfatta brama di Parma e Piacenza. La guerra iniziatasi con prosperi successi per la Francia, nei Paesi Bassi, e ai confini di Spagna riuscì a tutto vantaggio degli eserciti confederati imperiale e pontificio. Gli Spagnuoli toglievano Milano al Lautrec il 19 novembre 1521, e pochi giorni appresso ricondotto dalle armi straniere Francesco II Sforza sul ducato paterno, Carlo V pagava al pontefice il prezzo dell'alleanza. Leone X non fece a tempo a misurare la fallacia delle sue previsioni. Sul sepolcro illacrimato che il primo dicembre gli si dischiuse fioccarono gli epigrammi, sghignazzò Pasquino durante il conclave, e i clienti arricchiti dalla Curia romana, durante il lungo tripudio carnevalesco del papato Mediceo, perdettero gravi somme accettando favolose scommesse sul nome di Giulio de' Medici, che non raccolse i suffragi. L'eletto fu Adriano d'Utrecht, il precettore di Carlo V. Alle tanto temute influenze francesi si sostituivano le più caute e pazienti della cancelleria spagnuola, e l'Imperatore rallegravasi di quella scelta, come di una vittoria sua propria. Ma quale eredità non avea lasciata al successore Leone X! Il severo fiammingo, che la ripudiò con disdegno, apparve alla Roma rediviva dei Cesari come un fantasma pauroso e grottesco. Sparve dal Vaticano lo sciame dei parassiti e dei cortigiani, sospesero le abbozzate pitture gli scolari di Raffaello; e il solitario pontefice in odio al popolo per la sua avarizia, ingannato e deriso da cardinali beffeggiatori, logorò la vita infelice, proseguendo un ideale irrealizzabile di restaurazione morale, politica e religiosa. La fioca voce di Adriano VI morente, era soffocata dal fragore delle armi proprio allora che la guerra si riaccendeva più aspra che mai in Sciampagna e in Piccardia, e la vittoria della Bicocca (dell'aprile del 1522) avea già assicurato il possesso di Milano ad un principe ligio ai voleri di Carlo V. Con nuovi e insperati successi questi raccoglieva il frutto delle due leghe conchiuse coi Veneziani, col papa e con gli Stati minori d'Italia. Respinta nel 1523 l'invasione del general Bonnivet, sgombrata ancora una volta la Lombardia dai Francesi, perchè non avrebbe egli dato ascolto alle sollecitazioni del duca Carlo di Borbone, il ribelle feudatario di Francia, che lo stimolava a penetrare in Provenza, a congiungere le forze tedesche alle spagnuole, a marciare direttamente su Lione per strappare dal capo del suo avversario la mal difesa corona? Se non che la spedizione della Provenza del 1524 non fu più avventurata delle successive. Il duca faceva affidamento sul concorso de' suoi partigiani, e l'odio così gli accendeva la fantasia da non scorgere che ribelli nei popoli devoti e affezionati alla casa di Valois. Onde gravissimi dissapori tra lui e il marchese di Pescara, che sotto le mura di Marsiglia, mirabilmente difesa dalla flotta francese capitanata da Andrea Doria, vedeva dolorosamente svigorirsi l'esercito dell'Impero. Durava ancora l'assedio quando giunse al campo notizia che il re di Francia ritentava in persona l'impresa d'Italia. “Chi vuol cenare all'inferno, esclamò il marchese di Pescara, torni pure all'assalto, ma chi vuol salvare a Cesare la Lombardia farà bene a seguirmi.„ Il progetto della rivincita torturava da lungo tempo l'animo di Francesco I; il tradimento infame del duca Carlo di Borbone non fece che ritardarne l'esecuzione. Le serie obbiezioni del La Tremouille non valevano meglio delle preghiere e delle lacrime di Luisa di Savoia per distogliere il re dall'affrettata deliberazione. Il 12 agosto del 1524 nel castello di Gien sulla Loira egli affidava la reggenza del Regno alla madre, e prendeva commiato dalla regina Claudia, dalla sorella, dalle dame della sua corte. Pochi giorni appresso muoveva da Avignone per la Liguria, inseguendo gli Imperiali, che aveano levato a precipizio l'assedio di Marsiglia, e il 20 ottobre passava il Ticino. Milano, spopolata dalla peste, priva d'armi e di denaro, per consiglio di Girolamo Morone gli apriva le porte il 24, e sulla fine del mese il maggior contingente dell'esercito vittorioso, per improvvido suggerimento del Bonnivet, concentravasi sotto le mura dell'infausta Pavia. Chi avrebbe mai preveduto, dopo una così rapida restaurazione delle sorti francesi, la catastrofe del 24 febbraio 1525, la morte sul campo del Bonnivet, del La Palisse, del La Tremouille, la rovina di tanta parte della feudalità francese, l'umiliazione e la prigionia del re? Non ne indagheremo le molteplici cause; ma certo l'immane disastro colpì come fulmine, e disarmò i principi italiani delle speranze fin allora nutrite di rialzare la parte francese per salvar la penisola dalla minacciata soggezione spagnuola. Nel vecchio e pur inevitabile errore di associare alla fortuna di un re straniero le sorti d'Italia ricadevano ben presto il pontefice, i Fiorentini, Venezia. La tela delle simulazioni e degli inganni con tanto accorgimento tramata da Leone X ai danni della Francia, si ritesseva ora a rovescio, e con minore risolutezza ed energia dal nuovo pontefice Clemente VII. Nemici a lui i Colonnesi, fedeli a Cesare, insofferenti del giogo mediceo i Fiorentini, Clemente VII acquetava quelli dandosi a credere legato ancora a Carlo V dai vecchi patti, appagava questi con false promesse di liberali riforme nel reggimento politico di Firenze, che illudevano i nostri politici, non avvezzi più a limitare l'acuto sguardo entro la ristretta cerchia degli interessi cittadini, ma preoccupati della salute d'Italia. Resistere a Carlo V significava inoltre per il pontefice non impegnare la Chiesa romana in riforme dogmatiche e disciplinari, che ne offendessero le tradizioni, ne minacciassero gli antichi diritti, spogliassero il papato del principato terreno. Gravi preoccupazioni politiche ispirate talvolta ad una idealità di principî, che lasciavano fredde e indifferenti le moltitudini, persuadevano la repubblica veneta a secondare il nuovo indirizzo della politica pontificia. Riconquistato faticosamente il dominio di terraferma, usurpatole dai collegati di Cambray, Venezia acquistava ogni giorno più la coscienza della sua italianità. Estranea per lunghi secoli


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