La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893. Autori vari

La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893 - Autori vari


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offriva all'ammirazione della scienza politica l'organismo meraviglioso della sua costituzione interna proprio allora che dai Principati e dalle sopravvissute repubbliche, impotenti a risolvere il problema politico, le derivarono i benefizi della progredita cultura, e i doni preziosi dell'arte rinnovellata. Se non che i generosi sforzi della Repubblica non impedirono che da funeste titubanze, e da diffidenze reciproche non rimanesse impacciata l'opera nostra. La congiura del Morone incautamente condotta, riuscì a tutt'altro fine da quello che se n'era sperato: accrebbe la impotenza personale di Francesco Sforza, svelò il putridume di corrotte coscienze, rese più che mai sospettosa la vigilanza degli Spagnuoli. Dopo il trattato di Madrid, che immobilizzava le forze francesi, e più che mai turbava il già spostato equilibrio, l'Italia sentì più grave il peso dell'oppressione, e accedendo alla lega di Cognac e alla politica inglese, sembrò con un ultimo sforzo risollevarsi dal letto del suo dolore. L'idea generosa di una riscossa ispira la prosa ufficiale del Wolsey, infonde nuovo calore alle lettere diplomatiche del Datario Ghiberti, conforta di pietose illusioni lo spirito travagliato di Niccolò Machiavelli. Ma la Niobe delle nazioni non fece che esporre a nuove e mortali ferite il corpo già flagellato. Piombaronci addosso le coorti indisciplinate del Borbone, i fanatici lanzi del Frunsberg corsero le terre desolate ed arse, traversarono le città spopolate le genti fameliche del Lautrech. Invano il pontefice abbandonato dai Fiorentini, maledetto a Venezia, mancando agli impegni, sconfessava l'opera propria, e implorava misericordia dai nemici furenti. Ministri dell'ira celeste i Tedeschi compivano, col sacco di Roma, il vaticinio di Ulrico di Hutten, detronizzavano il papa, restituivano i diritti su Roma all'Impero, spegnevano la podestà temporale del sacerdozio, preannunciavano al germanesimo sulla risorta civiltà latina una nuova vittoria. Condannò Erasmo, che pur l'avea preparata con l'Elogio della Follia, la rovina di Roma. Ne consacrarono in noiose elegie il funesto ricordo i poeti latineggianti cresciuti alla scuola del Sadoleto e del Bembo. Anticipazione violenta di una legge fatale, il significato storico di quell'orgia di sangue, rimase per gran parte ignoto ai contemporanei, a Carlo V stesso, che non avea voluto impedirla. Sorpreso anch'egli dall'immane disastro, che scompigliava le sue previsioni, ne rendeva responsabile il suo avversario, violatore del trattato di Madrid, ne cercava le cause nella subdola politica inglese, nelle sfrenatezze delle plebi e degli eserciti, nella cupidigia insaziabile del papato. Ma come dissimularsi che il tremendo castigo non fosse commisurato alle colpe di papa Clemente! Come non riconoscere che per punirlo egli si era fatto complice dello spirito ribelle della nazione germanica, e che a lui solo come capo del mondo cristiano, ed erede di Carlo Magno, spettava invece reprimerlo e soffocarlo per salvare l'unità della fede? Gli amari rimproveri che il re di Francia, quasi assumendo di fronte a lui la tutela del mondo cristiano, gli scagliava contro, crucciavano il suo animo esacerbato. Più grave si faceva per Carlo l'imbarazzo di uscir con onore da una situazione pericolosa, più temeva il rischio di dover scendere a patti coi Luterani, di non trarre dall'alleanza imposta al Pontefice proporzionati vantaggi, più sentiva ridestarsi in petto formidabile l'odio contro il rivale che non appena libero dalla prigione, mancando alla fede data, lo avea di nuovo trascinato alla guerra. Il linguaggio di Carlo V verso l'avversario, che forte dell'alleanza di Enrico VIII proponeva condizioni di pace inaccettabili, passava oramai i limiti della convenienza, colmava ogni misura. E così proprio allora che la grande lotta sembrava perdere ogni carattere personale e rappresentare un urto formidabile di principî politici e di tradizioni opposte, i due rivali pensavano di deciderla in campo chiuso, e con le armi alla mano. Il sovrano della più cavalleresca delle nazioni sfidava il re cattolico a singolare tenzone, ed il duello avrebbe offerto un episodio di più al tragico dramma se Carlo V avesse saputo moderare le ingiurie, dopo la sfida.

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      Del famoso cartello diede lettura Giovanni Robertet nella solenne adunanza del 18 marzo 1528, in cui il Re, assiso sul trono, e circondato dai principi del sangue, dai gentiluomini della corte, dai cardinali, e dai grandi signori del Regno, riceveva in visita di congedo Nicola Perrenot signore di Granvelle, l'ambasciatore di Carlo V. In quella veemente scrittura rimproveravasi l'imperatore di aver rifiutate sdegnosamente le proposte di pace, e giustificavasi il deliberato proposito di continuare la guerra, ricordando con vivaci espressioni le rapine d'Italia, il saccheggio di Roma, la invasione della Germania. “Se ritenere i miei figli ostaggi a Madrid, aggiungeva Francesco I, esigere, prima ancora che mi sieno restituiti, ch'io abbandoni i miei alleati, aver fatto prigioniero il Pontefice, vicario di Dio su la terra, aver offesa la religione, lasciata aperta la Germania ai Turchi, tollerato il trionfo dell'eresia, se tutto ciò, dico, non basta, io non so più quali ingiurie e quali ragioni potranno mai provocarmi, offendermi nel sentimento di padre, richiamarmi ai doveri di Re Cristianissimo.... E poichè voi mi accusate di aver commessa azione disdicevole a un gentiluomo, che abbia sacro l'onore, noi vi rispondiamo che mentite per la gola, e mentirete ogni volta che oserete ripeterlo. Siamo deliberati a difenderlo sino all'estremo di nostra vita. Non una parola ingiuriosa di più.... assicurateci il campo, noi vi porteremo le armi. Quando si viene al cimento doveroso è il silenzio.„ Ma il silenzio, com'è noto, fu rotto dalle nuove ingiurie di un cartello di risposta, di cui fu latore alla corte di Francia l'araldo spagnuolo Bourgogne. Francesco I, che al suo avversario chiedeva la sicurtà del campo, e non altro, non volle lasciarsi offendere impunemente una seconda volta, licenziò dalla corte l'araldo, nè più lo ammise alla sua presenza. Il De Leva non crede che l'Imperatore abbia mai preso sul serio la sfida, onde è probabile che ricambiando il cartello, e rincarando la dose delle provocazioni, intendesse di togliere all'avversario ogni pretesto di nuova querela. Su la strana vertenza si fecero infiniti commenti; si accusava in Spagna Francesco I d'aver evitata la prova con sotterfugi disonorevoli, rimproverava la nobiltà francese l'Imperatore di aver violato pensatamente le consuetudini cavalleresche per trarsi d'impaccio. Ma come non vedere che entrambi preferivano che il duello continuasse a combattersi tra le nazioni, e ne fosse ancora la Lombardia il campo fatto sicuro dalle cime nevose delle Alpi?

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      Se non che la fortuna delle armi non proteggeva la Francia. Armeggiava ancora intorno a Milano il Saint-Pol, diradavansi ogni giorno più pel contagio le file dell'esercito del Lautrec, e gli alleati che avrebbero dovuto coadiuvare quegli sforzi, mancando agli impegni, correvano dietro ai loro interessi. Andrea Doria abbandonava la parte francese; i duchi di Ferrara e di Milano, nel timore di perdere lo Stato, si umiliavano a Carlo V; Venezia, che per i suoi possedimenti di Puglia sospettava ragionevolmente e Francia e Spagna, schermivasi dagli obblighi assunti, e per mantenere Cervia e Ravenna ritolte alla Chiesa, alienavasi il Papa; questi, sacrificando tutta Italia agli interessi temporali della Chiesa, e alla grandezza di casa sua, s'accostava segretamente all'Impero. La pace che Francesco I avea poco innanzi rifiutata con superbo disdegno bisognava ora accettarla a durissime condizioni. Ne fu principale negoziatrice a Cambray di fronte alla scaltra zia di Carlo V Luisa di Savoia, madre del Re, e sul suo capo piovvero improperii d'ogni maniera. Un sonetto audacemente satirico si diffuse, durante il convegno da Venezia, per tutta Europa, e nelle nostre corti, facendo eco ad un popolo moribondo, cantarono in rima i buffoni la vigliaccheria del Re, di sua madre, dei ministri regi. Eppure l'ultimo e solenne atto diplomatico, cui partecipò Luisa di Savoia, se bene foriero di nuove calamità alla penisola, trovò un difensore in un fiorentino e repubblicano per giunta, Baldassare Carducci. L'oratore della Repubblica, ricostituitasi nel 1527 durante la prigionia del Pontefice, giustificava innanzi alla Signoria la debolezza del Re affermando che si era lasciato indurre a firmare l'umiliante trattato per soddisfare alle lacrime di sua madre. Luisa di Savoia avea voluto salvi dagli insulti degli Spagnuoli i proprii nipoti; nè sono mai vili le lacrime di una donna in difesa del proprio sangue! Quanto più vile di quelle lacrime il sentimento di vendetta che contro la patria animava in quei giorni Clemente VII! Non la gelosa difesa del mondo cristiano, non la salute d'Italia, ma l'odio contro Firenze lo conduceva a Bologna incontro all'Imperatore, dopo aver stipulato con lui il segreto trattato di Barcellona, nell'ottobre del 1529; e in quei mesi di feste clamorose e di tripudii carnevaleschi, circondato dalle giovini speranze della sua casa, egli ne vagheggiava la grandezza futura sulle rovine fumanti della


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