La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893. Autori vari

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Beza, Calvino soleva anzi dire: “in Italia non ho fatto altro che entrare ed uscire!

      Tuttociò può parer strano, sebbene sia in realtà semplicissimo, e forse nessuno n'avrebbe fatto caso, se non si trattasse d'un gran nome, come quello di Calvino, perchè tutti possiamo trovare in noi stessi il ricordo di qualche viaggio sconclusionato, senza che altri si metta a fantasticare e a crearci sopra un romanzo.

      Ma poichè si trattava di Calvino, questo suo viaggio in Italia divenne a poco a poco il soggetto di mille lucubrazioni le più diverse ed opposte, in forza delle quali ora si complicò e s'ingigantì fino alle proporzioni d'un grande avvenimento storico, ora s'impicciolì e si restrinse a segno da dover all'ultimo domandarsi: “è venuto in realtà Calvino in Italia? o non se l'è mai neppure sognato?„

      Perocchè la critica recò grandi benefici (chi potrebbe dubitarne?), ma è pur vero che se su certe questioni storiche piglia l'aire, non si suole fermare a mezzo e ricostruisce o scrolla tutto con una facilità talmente sbalorditiva, che incrociar le braccia e mettersi meditabondi a sedere fra le due corna del dilemma d'Amleto: essere o non essere, pare ed è alle volte la conclusione più scientifica e sempre poi l'atteggiamento più degno di chi niente niente la pretenda a scienziato.

      Su questo viaggio di Calvino in Italia, il quale per lungo tempo non ebbe altra testimonianza nota che quella del Beza, abbiamo quindi una prima versione, la versione ricostruttrice, e s'incomincia dal farlo venire non nel marzo del 1536, bensì nell'autunno del 1535 per aver più larghezza di tempo disponibile, in cui collocare un maggior numero d'avvenimenti. In Ferrara era aspettato a gloria dalla Duchessa Renata di Valois, moglie di Ercole II d'Este, dalle dame e dai cavalieri Francesi, che l'aveano seguita di Francia fin dal 28 e che tutti più o meno erano intinti di Luteranesimo, di cui aveano portato i germi dalla corte di Margherita di Navarra, la protettrice dei primi riformatori Francesi ed insieme la protettrice, l'amica, l'inspiratrice della giovinezza di Renata, innanzi che essa venisse sposa in Ferrara del bello ed elegante figliuolo di Lucrezia Borgia.

      E a far capitare Calvino nell'autunno del '35 s'ha ancora un altro vantaggio, cioè che il Duca Ercole era in quel momento assente per visitare Paolo III a Roma e Carlo V a Napoli, il che mostrava chiaro che Calvino avea voluto appunto approfittare dell'assenza del Duca per non imbattersi a prima giunta in lui, che di Francesi a corte, e per di più sospetti d'eresia, doveva ormai averne abbastanza, se, per suo gusto, non n'aveva già di troppo.

      Tornato il Duca nei primi del 1536, Calvino gli fu presentato come un innocuo letterato qualunque, nè egli, che tenea già in corte il poeta Clemente Marot, scappato anch'esso di Francia, e tutti i dotti e umanisti, che componevano l'abituale società della cultissima Duchessa, avea di che meravigliarsi del nuovo venuto. Se non che questi non era uomo da starsene e da non fare la parte sua ad ogni costo. Catechizzò quindi non solo la Duchessa, ma molti altri della corte, predicando da prima in segreto, poi quasi in pubblico nella cappella e nella sala dell'Aurora, dipinta da Tiziano nel Castello degli Este, e lo stesso Tiziano era fra gli ascoltanti e fece anzi il ritratto del riformatore.

      In un subito, che è, che non è? il Duca si risovviene d'essere buon cattolico e vassallo del Papa e fa arrestare Calvino. Ciò tronca in fiore (alcuni dicono) i suoi disegni, che non si limitavano a Ferrara e alla Duchessa Renata, ma miravano ben più in largo e più in alto.

      Comunque, mentre per ordine dell'Inquisizione Calvino era condotto prigioniero da Ferrara a Bologna, alcuni armati assalgono i suoi custodi e lo liberano. “Onde fosse venuto il colpo, — scrive nient'altri che il Muratori, — ognuno facilmente l'immaginò„ cioè da Renata.

      Uscito da quel mal passo, Calvino fugge, traverso Modena, Reggio, Scandiano, e per Parma e Piacenza giunge in Piemonte. Ritenta la sua predicazione a Cuneo, a Saluzzo, ma è preso a sassate. Lo accolgono invece i Valdesi a braccia aperte nelle loro valli. Ma esso ed il suo Du Tillet, risalendo ad Ivrea il corso della Dora, se ne vanno in Aosta per rivalicare le Alpi, trovano tutta la valle agitata da questioni religiose, si gettano in mezzo a quei trambusti per farne loro pro, un Vescovo Gazzino ed un Maresciallo Conte di Chaland, zelantissimi, eccitano contro i due eretici il popolo, che li caccia a furia, sicchè sentendosi quasi alle reni la spada del Conte di Chaland, Calvino e il suo compagno, per uno stretto passo delle Alpi, a tutti ignoto, fra i ghiacci e le nevi, riescono a stento a salvarsi.

      *

      E non crediate, signore, che manchino le prove anche a tutta questa parte Valdostana della grande leggenda sul viaggio di Calvino, perchè a sostegno di essa stanno nient'altro che una colonna commemorativa su una piazza d'Aosta, un monogramma, che credo ancora si vegga impresso sugli usci di parecchie case della città, l'usanza in Val d'Aosta di suonar mezzogiorno a undici ore per significare la sollecitudine dei fedeli Valdostani a liberarsi dall'eresia, i ruderi di una bicocca, dove si vuole che Calvino abbia abitato, e finalmente uno stretto passaggio delle Alpi, per dove sarebbe scampato, ed a cui è rimasto il nome di finestra di Calvino.

      Or bene, di tutto quanto io v'ho narrato, e che dai più gravi scrittori era tenuto per pura storia fino a pochi anni fa, non esiste quasi più niente. La critica ha disfatto nella massima parte la poetica leggenda; la gran scena di Ferrara, così ricca di contrasti drammatici, di personaggi importanti e di sorprese romanzesche è ridotta una vera miseria; la pittoresca catastrofe alpina è scomparsa del tutto; la colonna, il monogramma, le campane, che suonano mezzogiorno a undici ore, la bicocca di Bibiano, la spada del Conte di Chaland, la finestra di Calvino, sono come gli attrezzi e gli scenari smessi d'una commedia finita; non sono più altro, vale a dire, che i materiali della leggenda, quale s'è formata dopo, sovrapponendo, come suole, un nome famoso a ruderi di monumenti e di ricordi, dei quali s'era smarrito con l'andare del tempo il nome vero e la primitiva significazione.

      Dopo la versione, che chiamai ricostruttrice, la versione demolitrice trascorse tant'oltre, che seriamente s! dubitò, ripeto, se il viaggio di Calvino in Italia era mai avvenuto, o se era invece da mettere insieme alle tante apparizioni e predicazioni attribuite anche a Lutero, il quale fu bensì in Roma nel 1511, quand'era ancora un oscuro frate Agostiniano, ma che, quando s'era già apertamente ribellato, si pretese pure, senza alcun fondamento, che avesse tentato il suo apostolato a Como, a Menaggio, nella Valtellina e nei Grigioni.

      Negar tutto però in cospetto alla precisa affermazione del Beza era troppo, e di fatto oggi nessuno contesta più che realmente Calvino sia venuto in Italia. Dopo tanti anfanamenti e travagli per fare e disfare, s'è anzi ritornati nè più nè meno alla versione del Beza, e non dirò, per non tediarvi di troppe minuzie, qual via si tenne per ritornarvi; dirò soltanto che la sua testimonianza non è più sola, che fra altre prove ed indizi, una lettera di Giovan Sinapio, medico di corte di Renata, scritta da Ferrara a Calvino il 1.º settembre 1539, dice espressamente d'averlo visto in Ferrara e dice di più, quasi in aria di amichevole rimprovero: “quando, anni sono, foste qui, faceste di tutto perchè io non indovinassi con qual uomo avevo da fare„; il che dimostra altresì che contegno tenne Calvino in Ferrara, al tutto contrario cioè a quello attribuitogli dalla leggenda. Calvino dunque è venuto in Italia tra il marzo e l'aprile del 1536, è rimasto pochi giorni quasi nascosto nella Corte di Ferrara, e se n'è andato molto probabilmente per la stessa strada, da cui era venuto. Tutto il resto è leggenda, anzi favola. Ma io ho voluto narrarvelo, perchè codesto viaggio di Calvino in Italia e le fasi diverse delle ricerche critiche intorno ad esso, rappresentano, secondo me, come in iscorcio, tutto il destino, sto per dire, della storia della Riforma in Italia nel secolo XVI. Si ondeggia cioè tra un perpetuo sì e no, fra l'ingrossare a disegno fatti di poca importanza o toglierla ad altri che, quando pure non siano che dissensi, tentativi, manifestazioni timide, incompiute, individuali, ne hanno, in così delicata materia, una grandissima, almeno per chi non crede che la storia stia tutta in battaglie, conquiste, invasioni e mutazioni di governi, per chi pensa invece che la più difficile, ma la più importante ricerca sia quella soprattutto dei fatti della coscienza umana, dei quali la storia è il grande deposito, che interrogare questa coscienza con diligenza di analisi sia una delle più utili attività della critica, che far tacere finalmente più che si può le proprie passioni e i proprii preconcetti, affinchè quella coscienza umana possa rispondere in ispirito e verità, sia la meno arbitraria, forse la sola, ancora possibile, filosofia della storia.

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