Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele


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Sognando di potere rinnegare il dritto e mantenere il fatto, scriveangli non aver bisogno dì soldati nè di alcuno aiuto da lui: nominasse un governatore e un cadi, ed essi penserebbero al resto; aggiugnendo altre condizioni che lo empieron di collera e di furore, scrivono i cronisti senza particolareggiarle.315 E il Mehdi che sapeva usar le occasioni, in vece del trave della favola ch'ei bramavano, mandò in Sicilia uno sperimentato capitano,316 Abu-Sa'îd-Musa-ibn-Ahmed, soprannominato Dhaif, ch'è a dir l'Ospite, con un'armata e forti schiere di Kotamii, capitanate da loro sceikhi. Approdò a Trapani il quindici agosto; dove andati a trovarlo i notabili di Girgenti, molto li onorò, li presentò di ricche vestimenta, si studiò a lusingarli e tirarli alle sue voglie; ma quando vide che era niente, d'un colpo di mano fe' catturare il procace Abu-Ghofàr e metterlo ai ceppi. A tempo fuggì un costui fratello per nome Ahmed; corse a Girgenti a chiamare il popolo alle armi. Così i Berberi a capo di due mesi, e pur era troppo tardi, raccesero la rivoluzione ch'aveano spento con le proprie mani. Altre città e castella seguiron l'esempio.317

      Abu-Sa'îd senza dimora andò sopra la capitale. Sapendo intercetto il cammino da popolazioni tumultuanti, o manco difesa la città dalla parte di mare, il condottiero affricano audacemente imbarcò suoi Kotamii; e con l'armata entrò nel porto di Palermo a' ventotto settembre.318 La bocca del porto era quella ch'or s'addimanda la Cala; le lagune e il gran canale, in oggi ricolmi, penetravano assai dentro terra sino ai ripari della città vecchia; talchè lasciavan d'ambo i lati due bracci, tutti scogli ed arene, disabitati, com'ei sembra.319 Abu-Sa'îd pose le genti su l'un dei bracci; vi si afforzò di fronte con una muraglia tirata per traverso dal porto alla spiaggia esteriore; assicurato ai fianchi e alle spalle dal mare, ch'ei tenea con l'armata e sì chiudealo agli assediati.320 Dapprima potè far poco male alla città: sotto gli occhi suoi il diciassette d'ottobre i Palermitani giuravan la lega con gli ambasciatori di Girgenti e d'altre città; tra i quali si ricordano i nomi d'Ibn-Ali ed Awa-es-Seâ'ri.321 Ma par che il pericolo comune non facesse dimenticare la nimistà, e che il rimanente della Sicilia non mandasse aiuti; poichè gli assedianti sempre più strinsero Palermo. In un combattimento erano sconfitti i Siciliani; rimanea sul campo di battaglia grande numero di lor nobili; i feroci Kutamii irrompeano nei sobborghi; metteano al taglio della spada gli abitatori, fin le donne e i fanciulli; sforzavano le donzelle, guastavano e saccheggiavano ogni cosa. Nondimeno la città vecchia tenne fermo: Abu-Sa'îd chiese ed ebbe dal Mehdi nuovi aiuti d'uomini e di navi; finchè, scarseggiando le vittuaglie, rincarito anco il sale a poco men che una lira all'oncia,322 i cittadini si calarono agli accordi dopo sei mesi d'assedio. Si stipulò pien perdono, fuorchè a due capi ribelli: e i cittadini con la solita alacrità li consegnarono, e fecero entrare Abu-Sa'îd a' dodici marzo novecento diciassette. Contro i patti, com'egli è manifesto, svelse le porte, abbattè mura, tolse le armi e i cavalli da battaglia, pose una taglia su la città, e, imprigionati molti uomini di nota, li mandò in Affrica al Mehdi. Questi senza strepito li fe' mazzerare; e poi spacciò in Sicilia una clementissima amnistia. Di settembre del medesimo anno Abu-Sa'îd, col navilio e l'esercito, tornava in Affrica, lasciando a reggere la Sicilia Sâlem-ibn-Ased-ibn-Râscid, affidato in una forte schiera di Kotamii.323 La rivoluzione d'independenza parve morta e sepolta.

      CAPITOLO VIII

      Tra le raccontate guerre civili dell'isola, gli Italiani di Terraferma, arrivati, con rara vicenda di fortuna, a collegarsi per pochi mesi, estirparono i Musulmani dal Garigliano. Durevoli accordi poteano seguirne men che prima allo entrar del decimo secolo, quando i feudatarii dell'Italia di sopra si fecero quasi principi assoluti; l'autorità dell'impero occidentale calò tuttavia, per esser piccioli e troppi i pretendenti; le armi bizantine valser nè più nè meno quanto bastava a non poterle cacciare dall'Italia meridionale; la tiara pontificale s'avvilì, nei misfatti, nelle atrocità, nelle brutture, dispensata alfine per man delle Marozie e delle Teodore. E pure, com'è capricciosa la storia, quella lega italiana, sì giusta, sì necessaria, sì felice nel successo, ebbe origine a Roma in mezzo di tanto vitupero; l'eroe della impresa fu Giovanni decimo, nato di scandalo, esaltato per doppio scandalo, sì che gli scrittori ecclesiastici te l'abbandonano.

      Quando Giovanni decimo salì al pontificato (914), que' del Garigliano stavano in sul termine di passar da ladroni a conquistatori. Accozzati, come narrammo, dei Musulmani che avean guerreggiato in quelle parti al tempo di Giovanni ottavo, inaugurarono la nuova compagnia con saccheggi di monasteri: la sconfitta che toccarono in Calabria dell'ottocento ottantacinque li fiaccò;324 poi è verosimile che si fossero riforniti, sotto il regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, di fuorusciti Affricani e sopratutto dei Siciliani del novecento. Il passaggio d'Ibrahim (902) in Calabria lor diè ardire e, credo, rinforzi; credo lor siasi raggiunta la più parte della banda d'Agropoli, il cui nome sparisce dopo la fine del nono secolo; onde, s'ei ne restò qualche drappello, stava ai soldi della repubblica napoletana.325 Cresce, all'incontro, per tutte le croniche di questo tempo, lo spavento dei barbari del Garigliano, cui ci dipingono infestissimi e più terribili degli Ungheri che desolavano la Lombardia;326 e pur venendo ai particolari niuno accusa i Musulmani d'aver arso, come fecero gli Ungheri, le centinaia di prigioni. Il vero è che i Musulmani non avanzavano i Magiari di crudeltà, nè di numero; sì bene di sveltezza, di perseveranza e d'ordini. Già già appariva, nel bel mezzo della nostra costiera del Tirreno, quel nocciolo normale dello stato musulmano: il Kairewân.327 Il campo del Garigliano cominciava a prendere aspetto di città: aveanlo afforzato di ripari e torri;328 vi tenean le donne, i figliuoli, i prigioni, il bottino.329 I gioghi del vicin colle, eran cittadella nel pericolo estremo. Il breve tronco del fiume, navigabile a barche, rendea comoda la stanza e agevoli gli aiuti; sedendo alla foce i confederati cristiani di Gaeta, e un po' più lungi la repubblica di Napoli, che si facea rispettare, ma in fondo era amica. Non si ritrae che costoro ubbidissero agli Aghlabiti, nè poscia ai Fatemiti, nè mai agli emiri di Sicilia. Facean corpo politico dassè, fuor della legge; come tante altre compagnie musulmane in vari tempi e luoghi: a Creta, a Bari, a Taranto, a Frassineto. Al par che quelle scegliean lor capo, che un cronista italiano chiama califo330 e s'intitolava forse così.

      Guardando su la carta d'Italia i nomi dei luoghi infestati, si vedran le gualdane spiccarsi dalla stanza del Garigliano, come raggi che vadano a ferire per tutta l'area d'un vasto semicircolo; se non che i raggi son corti e rintuzzati tra mezzogiorno e levante, ove incontravano Napoli e i principati longobardi; e corron lungi assai tra ponente e tramontana per entro lo Stato Ecclesiastico. Provocati da qualche insolito guasto di que' del Garigliano dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed, i Cristiani vennero ad osteggiarli alla sponda del fiume, di giugno del novecentotrè; e toccarono sanguinosa sconfitta.331 Atenolfo principe di Capua, testè insignoritosi di Benevento (900), volle ritentare la sorte delle armi, il novecento otto: trasse alla lega i Napoletani e gli Amalfitani; raccolta gran gente, passò il Garigliano sopra un ponte di barche a Setra, come si chiamava il luogo presso Traietto; dove fortuneggiò in un assalto notturno dei Musulmani e dei Gaetini lor ausiliari; ma, ristorata la battaglia, ruppe i nemici e inseguilli fino ai ripari.332 Visto poi che non bastassero le forze a quella espugnazione, ovvero che i Napoletani balenassero nella lega, mandò il figliuolo Landolfo a chiedere aiuti a Leone, al quale premeva altrettanto d'assicurare i dominii bizantini in Italia. E così la impresa si apparecchiava a Costantinopoli, quando Landolfo ebbe a tornare a Benevento per la morte del padre (910), e mancò di lì a poco (911) lo stesso Leone.333 Landolfo, preso lo stato, rinnovò il novecentoundici i patti con la repubblica di Napoli; la quale in parole gli promesse d'aiutarlo


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<p>315</p>

Baiân, an. 304, l. c.

<p>316</p>

Iahia-ibn-Sa'îd, continuatore degli annali di Eutichio, MS. di Parigi, fog. 89 verse, accennando la rivoluzione d'Ibn-Korhob, la dice domata da un capitano, del Mehdi per nome Bagana o Bogona, etc., (ch'ei non mette vocali) il quale ridusse anche le città ribelli di Barca e Tuggurt. Non ostante la inesattezza della narrazione, è evidente che si tratti di Abu-Sa'îd ch'avea forse quell'altro nome, berbero, com'ei mi suona all'orecchio.

<p>317</p>

Confrontinsi; Chronicon Cantabrigiense, Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, ll. cc. Il Rampoldi, tomo V, anni 914, 915, 916, 917, rimpastò e trinciò a modo suo tutti questi avvenimenti, tolti dalla Cronica di Cambridge e da Nowairi. Il Martorana, tomo I, p. 81, e il Wenrich, lib. I, cap. XI, § 103, han fatto d'un solo due capitani: Musa-ibn-Ahmed, e Abu-Sa'îd-Aldhaif; e il Wenrich ha fatto venire bi Sicilia il primo nel 913, e l'altro nel 916.

<p>318</p>

Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, Ibn-el-Athîr, ll. cc.

<p>319</p>

Si vegga la nota a p. 68, 69, di questo volume. Il mare dell'antico porto si è ritirato notabilmente in pochi secoli; sia per sollevamento del suolo, sia per alluvione del fiume Papireto, sia per l'uno e per l'altro insieme. L'anno 972, quando venne in Palermo Ibn-Haukal, il gran porto giacea nel quartiere delli Schiavoni (chiesa di San Domenico, contrada del Pizzuto ec.), e l'arsenale, alla Khâlisa, cittadella fabbricata dai Fatemiti il 937; la quale, dice Ibn-Haukal, era circondata dal mare, fuorchè dalla parte di mezzogiorno. Indi è evidente che le acque occupavan quella che si chiama tuttavia “Piazza della marina” ancorchè più non guardi il mare. Fazzello afferma che al principio del XVI secolo, tirando gagliardi venti di tramontana, le onde batteano una porta della città e allagavan la piazza contigua, e che ciò non avveniva più quand'egli scrisse, cioè verso il 1530. (De rebus siculis deca l, lib. VII, cap. I.) In oggi il mar grosso di greco-tramontana, che dà per dritto entro la Cala, manda appena qualche sprazzo a piè delle case e ricaccia i rigagnoli dentro gli aquidotti della Piazza-marina. Però io credo che al principio del X secolo i due bracci fossero stati sì bassi da non potervisi far soggiorno. Alla punta di quel di Tramontana è in oggi il Castello, fabbricato sopra scogli a fior d'acqua. Il braccio della Kalsa o Gausa, come si chiama tuttavia questo quartiere ed è la Khâlisa Fatemiti si distingue tuttavia benissimo a quella schiena che s'alza, tra la passeggiata della marina propriamente detta e la Piazza della marina. Quivi sono il palagio Butera, la strada dello stesso nome, la chiesa della Catena (del porto antico), la Zecca, i Tribunali, dei quali edifizii il più antico arriva al XIV secolo; e sursevi fino al 1821 la chiesa della Kalsa, ch'era anche del XIV o XIII.

<p>320</p>

Ibn-el-Athîr, l. c. Le circostanze locali ch'ei narra stan bene nell'uno e nell'altro braccio, e la testimonianza d'Ibn-Haukal, che il porto giacea nel quartier delli Schiavoni, non toglie il dubbio; poichè la Khâlisa avea pur l'arsenale, o porto militare. Anzi è probabile che il braccio settentrionale, come più basso dell'altro e però paludoso, non fosse atto per anco a porvi un campo.

<p>321</p>

La data e i nomi degli ambasciatori si leggono nella cronica di Cambridge; il cenno di Girgenti e altre città in Ibn-el-Athîr. Awa o Uwa par nome proprio berbero.

<p>322</p>

Questo si legge nella sola Cronica di Cambridge. Il Caruso e gli orientalisti che lo aiutarono alla pubblicazione, lessero Tariain e interpretarono due tari. Ma oltrechè la voce tari si scriverebbe in arabico dirhem, il manoscritto ha chiaramente harbatain, che va letto kharrobatain, e significa due kharrobe, maniera di peso e di moneta, la cui denominazione pare tradotta dal latino siliqua. La moneta torna a 140 di dinâr; e però 0,36 di lira italiana. L'oncia di sale costava dunque 0,72: probabilmente l'oncia romana, che fu in uso in Sicilia fin, dopo la dominazione musulmana e ne fa menzione Edrisi. Secondo il valore che le dà Edrisi, non molto diverso da quello dell'antica oncia romana, tornerebbe all'incirca a 30 grammi.

<p>323</p>

Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6425 e 6426; Ibn-el-Athîr, l. c.; Baiân, e 'Arîb, an. 304, tomo I, p. 176; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 161, 162. Ibn-Khaldûn erroneamente suppone in Trapani la guerra che fu in Palermo. Il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 13, la confonde coi fatti di Girgenti. Il nome del nuovo emiro è scritto nella Cronica di Cambridge, Sâlem soltanto; nel Baiân, Sâlem-ibn-abi-Râscid; in Ibn-Khaldûn, Sâlem-ibn-Râscid; nel Nowairi, Sâlem-ibn-Ased-el-Kenâni. Credo si debba correggere Kotâmi; non essendo verosimile che il Mehdi avesse posto un arabo della tribù di Kinâna, sopra le soldatesche della tribù berbera di Kotâma, lasciate in Sicilia.

<p>324</p>

Veggasi il Lib. II, cap. XI, pag. 440 e 458, seg.

<p>325</p>

Probabilmente eran di questi drappelli i Musulmani che insieme coi Napoletani uccisero trenta cittadini di Capua l'anno novecento cinque. Veggasi Chronicon Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 206.

<p>326</p>

Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. XLIV, XLV.

<p>327</p>

Veggasi il primo Vol., p. 113.

<p>328</p>

Munitiones, dice Liutprando; turres, il monaco Benedetto di Sant'Andrea.

<p>329</p>

Liutprando, l. c.

<p>330</p>

Chronicon comitum Capuæ, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 208.

<p>331</p>

Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, stesso volume, p. 206. Probabilmente vuol dire dei Longobardi di Capua e Benevento e dei Napoletani.

<p>332</p>

Leo Ostiensis, lib. I, cap. L.

<p>333</p>

Op. cit., cap. LII.