Vivere La Vita. Lionel C

Vivere La Vita - Lionel C


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anche con dei miei amici che a scuola capivano di meno ed avevano bisogno di aiuto.

      Aiutavo anche qualche ragazza della mia classe a trovare nelle industrie della città, il ferro vecchio necessario da portare al centro di raccolta, per il piano economico.

      A casa, appena arrivato dalla scuola, mi toglievo subito la divisa e la mettevo sempre apposto nell'armadio.

      Dopo che studiavo, mettevo sempre tutto in ordine e mi preparavo già la borsa da scuola per il giorno dopo, prima ancora di andare fuori casa a giocare con i miei amici. Andavo senza problemi, quando mia mamma mi mandava, a comperare il pane, a buttare l'immondizia, oppure quando dovevo fare altre cose per la casa che da bambino riuscivo a fare.

      Andavo a fare le stesse cose, anche per qualche vicino più anziano e che chiedeva a mia mamma il permesso di poterlo aiutare.

      In quel periodo, anche la maestra compagna comandante, che purtroppo dovevo vedere negli incontri periodici dei comandanti di classe, mi sembrava meno aggressiva, meno cattiva e forse anche meno brutta.

      Ogni partita di calcio che facevamo sul nostro “Maracana” in terra rossa, d'avanti al condominio, per me era già un allenamento per le future prove e quando è arrivato il grande giorno, ero più che preparato.

      Ero pronto.

      Scendere sul prato verde dove giocava la prima squadra e che avevo visto soltanto dalla tribuna fino in quel momento, era già un grande traguardo.

      Sentire il profumo del' erba ed il fruscio dei passi sul campo di gioco, una cosa unica.

      Vedere che sul prato eravamo entrati soltanto noi bambini ed i genitori stavano tutti a bordo campo senza poter entrare, mi faceva già sentire un po' importante e mi aiutava a non pensare al numero immenso dei bambini che eravamo ed al numero limitato dei pulcini da selezionare.

      Ancora meno al fatto che ero tra i più piccoli.

      Poi, quando è arrivato il futuro allenatore con il magazziniere che aveva una grande sacca di rete con tanti palloni di cuoio dentro, subito qualcosa è cambiato.

      Si sentiva che dovevamo cominciare a fare sul serio.

      Non avevo mai visto da vicino un pallone di cuoio, non l'avevo mai toccato, non vedevo l'ora di farlo.

      L'allenatore ci ha messi su due fila, dai più grandi ai più piccoli e ha cominciato a farci fare degli esercizi fisici per il riscaldamento.

      Dopo un bel po' di esercizi, ci ha fatto fare dei passaggi tra di noi con il pallone.

      Purtroppo, prima ancora di capire come andava quel pallone, ci ha fermati.

      Cominciava la selezione.

      Ha cominciato dai più grandi, ed uno a uno, chi veniva chiamato, andava nella zona di campo più lontana ai genitori.

      Vedevo, l'allenatore che prima parlava con ognuno dei ragazzi, poi faceva fare loro delle cose con il pallone. A qualcuno di più ed a qualcun' altro di meno e poi scriveva qualcosa sul quaderno che aveva in mano.

      Subito dopo, l'allenatore diceva qualcosa ad ognuno di loro.

      Non eravamo abbastanza vicini per capire cosa succedeva, ma vedevo alcuni ragazzi alla fine, saltare di gioia, altri, andare via con la testa bassa, altri ancora, andare via piangendo.

      Le gambe mi stavano quasi facendo male aspettando il mio turno.

      Quando è arrivato, eravamo rimasti soltanto due ragazzini e due papà.

      Eravamo i più piccoli.

      Mentre mi avvicinavo all'allenatore, lui, il campo, il pallone, mi sembravano diventati molto grandi, quasi giganteschi e mi chiedevo se ero ancora capace e giocare a pallone.

      Se potevo ancora farlo in quel momento, perché mi sembrava di respirare a fatica.

      Era come nel giorno della prima premiazione a scuola, e mentre ero "quasi pronto" per essere schiacciato da tutte quelle cose, ho sentito da lontano, dietro le spalle, la voce del mio papà che mi diceva di non avere paura.

      Di fare con tranquillità quello che dovevo fare.

      Quello che sapevo fare.

      Dopo i primi passaggi che ho fatto con l'allenatore, è diventato tutto normale.

      Più andavamo avanti, più mi sentivo meglio.

      Mi chiedevo soltanto, perché mi faceva fare tutte quelle prove, tirare con tutti e due i piedi, colpire di testa, provare a dribblarlo, fare i cross, girarmi di spalle e dopo che lui mi tirava il pallone, di trovarlo subito e passarlo di nuovo a lui.

      Avevo visto che ai ragazzi prima di me, ha fatto fare molto meno.

      Ero molto concentrato.

      Quando mi ha detto che abbiamo finito ero molto tranquillo, molto contento.

      L'ho visto che si è avvicinato a mio papà e non lo aveva fatto con nessuno prima. Li ha parlato e dopo avermi chiamato, mi sono avvicinato. Mi ha detto che era un po' preoccupato perché ero il più piccolo tra tutti. Di età e di fisico, ma perché, secondo lui, ero bravo, mi prendeva.

      Sorridendo, mi ha chiesto se ero contento.

      Lo avrei baciato, anche se non lo avevo mai visto prima e poteva essere quasi mio nonno.

      Quando mi ha chiesto quale era la cosa che mi e piaciuta di più in quel pomeriggio, li ho subito detto che ero felice di aver potuto tirare finalmente forte come volevo e come potevo, senza avere paura che il pallone andava nel corso e qualche macchina lo faceva scoppiare.

      Mi ha fatto una carezza, dicendomi che sarò il suo preferito, la sua mascotte, anche se di sicuro avremo avuto tanti problemi per riuscire a trovare scarpe da calcio, magliette e pantaloncini della mia misura.

      Andando verso casa, ero sulle nuvole.

      Camminavo senza toccare terra.

      Motivi di gioia per i miei sacrifici, per il mio lavoro, per i miei risultati, avevo già avuti molti e molto belli, ma quello era il motivo di gioia.

      Era unico.

      il più importante per me in quel momento.

      Non vedevo l'ora di dirlo alla mia mamma ed a tutti quelli che incontravo.

      Amici o anche soltanto conoscenti.

      In poco tempo, ho fatto così bene quel lavoro, che lo sapevano tutti e quando i ragazzi grandi del condominio, mi hanno detto che da quel giorno ero nella loro squadra se volevo, per me era tutto.

      Un' altro sogno quasi impossibile, che diventava realtà.

      Ero tranquillo, sereno e felice.

      Vivevo da beato.

      Tutto quello che facevo, volevo farlo molto bene, perché mi piaceva tanto e lo facevo volentieri.

      Con tutte le belle cose da vivere, la maestra compagnia comandante che mi piaceva sempre meno, ed il fatto che non potevo più giocare con i miei amici a pallone sul nostro “Maracana”, perché il mio allenatore non voleva, le vedevo come sacrifici che dovevo fare.

      Il prezzo che dovevo pagare, per le cose meravigliose che vivevo.

      Poi, un giorno, mentre mi gustavo, in pieno come sempre, tutto quello che vivevo, è arrivata una doccia fredda, ghiacciata.

      Come l'acqua dei rubinetti di casa nei giorni di inverno e dalla testa, sulla schiena e fino ai piedi, mi ha congelato in un attimo.

      Era arrivata all'improvviso e sembrava che avrebbe messo fine a tutto.

      La nostra maestra ci ha detto che eravamo cresciuti e che d'avanti a noi, avevamo ancora soltanto un trimestre da passare insieme, poi noi andavamo alle medie e lei prendeva altri pulcini di prima.

      Saremo rimasti per sempre nel suo cuore, perché eravamo stati i suoi primi allievi.


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