L’alibi Perfetto. Блейк Пирс
sono particolarmente occupata adesso,” disse Jessie. “E volevo passare del tempo con te. Sai, senza quello sdolcinato ragazzo attorno.”
“Sdolcinato non è la prima parola che mi viene in mente quando penso al tuo ragazzo,” disse Hannah.
“Attenta,” disse Jessie in tono di finto rimprovero. “Non dobbiamo condividere ogni sensazione nel momento in cui la proviamo.”
Hannah sorrise, ovviamente divertita per essere riuscita a generare un certo imbarazzo.
“Non sapevo che le figlie dei serial killer avessero il permesso di poter condividere sensazioni e sentimenti,” disse ironica.
Jessie cercò di non lanciarsi famelica addosso all’opportunità che la sorella le stava offrendo.
“Tecnicamente, non ci è permesso,” rispose beffardamente. “Secondo il manuale ufficiale, dovremmo essere freddi automi privi di emozioni, che si impegnano in sbrigativi tentativi di copiare il normale comportamento umano. Come te la cavi con queste regole?”
“Piuttosto bene, devo dire,” rispose Hannah, stando al gioco. “Mi sembra che mi riesca piuttosto naturale. Se ci fosse una qualche possibilità di sbocco professionale, penso che sarei una valida candidata.”
“Anche io,” confermò Jessie, dando una leccata al suo cono alla menta e cioccolato. “Probabilmente tu saresti la numero uno nel torneo. E non per vantarmi, ma penso che io sarei una validissima seconda.”
“Stai scherzando?” chiese Hannah mentre mandava giù un bel boccone di sano Rocky Road. “Tu al massimo saresti un jolly.”
“Perché?” chiese Jessie.
“Tu esprimi affetto per gli altri. Hai delle vere amicizie. Hai una vera relazione con una persona a cui sembri voler bene. È quasi come se fossi un essere umano normale.”
“Quasi?”
“Beh, siamo onesti, Jessie,” disse Hannah. “Sei sempre lì che vedi ogni interazione come una possibilità di fare il profilo della persona. Ti butti nel tuo lavoro per evitare le comunicazioni dolorose nella tua vita personale. Ti muovi come un cerbiatto, con la paura che tutti quelli che incontri siano il cacciatore pronto a sparare. Quindi, non completamente normale.”
“Wow,” disse Jessie, sia impressionata che un po’ turbata dalla capacità percettiva della sorella. “Magari dovresti essere tu la profiler. Non perdi un colpo.”
“Oh sì,” aggiunse Hannah. “E cerchi anche di minimizzare le verità scomode con delle battute sarcastiche.”
Jessie sorrise.
“Touché,” disse. “Tutta questa consapevolezza del nostro comune involuto sviluppo emotivo significa forse che le sedute con la dottoressa Lemmon stanno funzionando?”
Hannah ruotò gli occhi al cielo, lasciando intendere che a suo parere quel tentativo di reindirizzare la conversazione era particolarmente mal riuscito.
“Significa che conosco i miei problemi, non che sia necessariamente capace di fare qualcosa per risolverli. Cioè, tu da quanto la vedi?”
“Vediamo. Adesso ho trent’anni, quindi direi più o meno una decina d’anni,” disse Jessie.
“E sei ancora un casino,” sottolineò Hannah. “Questo non mi rende particolarmente ottimista.”
Jessie non poté fare a meno di ridere.
“Avresti dovuto vedermi allora,” le disse. “Confronto alla versione di me a vent’anni, ora sono l’immagine perfetta della salute mentale.”
Hannah parve pensarci su mentre prendeva un morso dal suo cono.
“Quindi mi stai dicendo che fra dieci anni potrei avere un ragazzo che non è per forza come me?” le chiese.
“Ora chi è che sta usando battute ironiche per evitare verità emotive?” domandò Jessie.
Hannah le fece una linguaccia.
Jessie rise ancora e poi diede un’altra leccata al suo gelato. Decise di non spingere oltre. Hannah si era aperta più di quanto avrebbe sperato. Non voleva che la conversazione si trasformasse in un convenzionale scambio figlio-genitore.
E poi, considerava la disponibilità di Hannah ad ammettere la propria sensazione di alienazione come un buon segno. Forse le preoccupazioni di Garland e della dottoressa Lemmon erano esagerate. Forse la sua costante paura che la sorellastra potesse essere una potenziale serial killer era insensata. Forse la ragazza era una normale adolescente che aveva vissuto un inferno e stava cercando pian piano di tirarsene fuori.
Mentre guardava Hannah che si puliva il mento da una goccia di cioccolato, decise che avrebbe creduto a questo.
Almeno per ora.
CAPITOLO OTTO
Morgan Remar era sfinita.
Il suo volo di ritorno dalla conferenza per i Servizi Sociali ad Austin era partito in ritardo. Era così stanca che si era appisolata mentre suo marito Ari la riportava a casa in auto dall’aeroporto. Quando arrivarono a casa loro nel distretto di West Adams, vicino al centro di Los Angeles, erano le undici passate.
Avrebbe dovuto incontrare Jessie Hunt, la profiler amica di Kat, domani mattina, e voleva farsi una bella nottata di sonno. Ovviamente le era stato quasi impossibile ultimamente.
Fin da quando era scappata, ormai due settimane fa, si svegliava almeno tre volte a notte, a volte gridando e sempre madida di sudore. Non riusciva a smettere di sentire l’odore di pino del guardaroba nel quale era stata tenuta prigioniera per cinque giorni. Saltava per aria ogni volta che una porta sbatteva o il clacson di un’auto suonava. Temeva che rivivere l’esperienza raccontandola all’amica di Kat avrebbe solo accentuato il tutto.
Arrivarono a casa e Ari imboccò il vialetto. Nessuno dei due smontò dall’auto fino a che il cancello di sicurezza non si fu chiuso alle loro spalle. C’era già quando avevano comprato la casa due anni fa, ma come la villa stessa, che stava invecchiando e che loro stavano lentamente ristrutturando, anche il cancello era piuttosto malconcio. Il giorno che Megan era scappata, mentre si trovava convalescente in ospedale, aveva implorato Ari di farlo riparare. Quando era tornata a casa, l’aveva trovato perfettamente funzionante.
La cosa non avrebbe dovuto sorprenderla. Ari era la persona più gentile e generosa che lei avesse mai conosciuto, il totale opposto del suo primo marito, che aveva lasciato senza provare il minimo senso di colpa. Ancor prima che tutto questo succedesse, la pazienza di Ari nei confronti del suo carattere burrascoso – di cui lei era ben consapevole – era impressionante. Dal rapimento, era diventato un vero e proprio angelo: la accompagnava alle terapie, le faceva dei massaggi, cucinava pranzo e cena e la abbracciava il più possibile.
“Sei sveglia?” le chiese gentilmente, vedendola stiracchiarsi sul sedile del passeggero.
“Sì,” disse lei sbadigliando, “e ho una fame da lupi. I biscotti zuccherosi che hanno offerto sull’aereo non mi sono bastati.”
“Vuoi che ti prepari qualcosa?” le propose.
“No. So che sei esausto. E io sono una ragazza grande. Posso prepararmi un panino da sola.”
“Ne sei davvero capace?” le chiese prendendola scherzosamente in giro.
Lei si accigliò per finta mentre smontava dall’auto e raggiungeva poi la porta laterale della casa, zoppicando un poco e cercando di mantenere l’equilibrio con la gamba sinistra ingessata. Faceva finta di non pensarci, perché altrimenti avrebbe anche dovuto ricordare il motivo per cui si trovava in quella condizione. E non voleva ricordare il modo in cui aveva distrutto la porta di legno del guardaroba in cui il suo aguzzino l’aveva rinchiusa senza prestare troppa attenzione. Non voleva riportare alla mente il ricordo della sua caviglia sinistra che schioccava sonoramente, piegandosi in modo innaturale con l’ultimo colpo, quello che aveva finalmente aperto la porta del guardaroba. Morgan si levò il pensiero dalla testa.
Mentre Ari portava la valigia in casa, lei sorrise debolmente, forse