La Principessa Belgiojoso. Raffaello Barbiera

La Principessa Belgiojoso - Raffaello Barbiera


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e molto fastidioso; e a qual pro? Si pensi che una principessa Belgiojoso, nella febbrile vita a Parigi, non avrebbe avuto nemmeno il tempo per comporre (almeno lei sola) opere così voluminose come quelle che ella pubblicò nientemeno che sul Vico e sulla formazione del dogma cattolico, e di cui discorro. Scrisse sì, e molto: la dissero anche affetta da grafomania, (e tanti altri forse no?); ma ella voleva diffondere i proprii convincimenti. Intorno al 1842, il Balzac, che si vantava d'avere «ses grandes et petites entrées» presso la principessa a Parigi, si divertiva a canzonarla e a denigrarla, scrivendo alla sua M.me Hanska ch'ella era «une belle Impéria, mais horriblement bas-bleu. Avant-hier, elle a quitté son cabinet pour me recevoir: elle est venue avec des taches d'encre à sa robe de chambre».[1] Altri talora scrivevano sotto l'ispirazione e per commissione di lei e per lei; altri della svariata folla, della quale ella si attorniò a Parigi e che tento di descrivere in questo libro sulle memorie del tempo. Ma ella pensò molto: fu una pensatrice. Victor Cousin ebbe ragione di chiamarla: Foemina sexu, ingenio vir. Definizione più esatta dell'altra, coniata a Parigi dal cognome maritale Belgiojoso: «Belle et joyeuse». Gaspare Finali, in una lettera a un amico, la delineò nitidamente in tre parole: «stranamente magnanima signora».

       Sembrerebbe vanità se dicessi che, dopo la mia pubblicazione sulla Belgiojoso, il nome della patriotica signora ritornò alquanto popolare. Nel 1906, un compilatore americano pubblicò tutto un volume, che fece poi tradurre in francese, sulla principessa «rivoluzionaria» servendosi a larghe mani dell'opera mia; facil costume questo, proprio di certe penne americane e inglesi, che un critico biasimò di recente in un grande giornale di Milano. Inutile accennare a biografie minori citate a titolo di lode da qualche illustre, ma compilate passo passo sul mio libro allegramente saccheggiato; superfluo accennare a numerosi articoli di riviste e di giornali italiani, francesi, inglesi, tedeschi, americani. Qualche altra cosa si potrà dire (quando si potrà?) sulla donna singolarissima, che deve essere giudicata soltanto in rapporto a' tempi suoi. Ella era una multanime, una natura svariata, ricca: e tali nature hanno misteri e continue sorprese.

       Il «lirismo» di qualche parte del mio libro documentato non è altro che un'eco dell'epoca che tentai d'evocare, epoca tutta vibrante di poesia vissuta. Le note e i gesti melodrammatici abbondavano in quell'epoca: l'esaltazione era sorella dei grandi fatti. Oggi, siamo più positivi; ma dobbiamo per questo essiccare fiori smaglianti, spegnere fiamme votive, confinare anime appassionate e ferventi nel gelo d'una formula notarile? La principessa Belgiojoso non scrisse mai un verso, ma non poca poesia, talvolta bizzarra, persino comica, talvolta grandiosa, travolgeva o esaltava il suo spirito. Nel 1848, meravigliosi atti eroici prepararono l'anima della nova Italia; ma l'elemento melodrammatico vi divampava sovente; parve, e fu, in quell'anno, eroina melodrammatica la principessa Belgiojoso, che si pose al comando d'un battaglione da lei allestito: ricordava forse il canto d'Odabella nell'Attila del Verdi, rappresentato due anni prima:

      Ma noi, noi donne italiche — Cinte di ferro il seno

      Sul fulgido terreno — Sempre vedrai pugnar.

       La biografia e la storia devono ritrarre, se è possibile, almeno qualche cosa, delle persone, del tempo, delle vicende che narrano.

      Milano, ottobre 1913.

      Raffaello Barbiera.

      LA PRINCIPESSA BELGIOJOSO

       Indice

      I primi anni di Cristina Trivulzio. — Aristocrazia e democrazia all'alba del secolo XIX. — Alla Corte napoleonica di Milano. — Il visconte di Chateaubriand a Milano. — Il processo del marchese Visconti d'Aragona come carbonaro. — Enrico Heine nel teatro alla Scala.

      A Milano, nel palazzo dei Trivulzio, nacque nel mattino del 28 giugno 1808 una bambina, destinata a riempire un giorno l'Italia e Parigi del suo nome. Il palazzo è austero. Nell'atrio, a destra, giace una tomba. Colla facciata a linee semplici e rigide, l'edificio guarda sopra la piccola piazza di Sant'Alessandro, dove sorge la chiesa barocca: e nello stesso giorno della nascita, là, in un'angusta, oscura cappelletta di quella chiesa, la neonata ricevette il battesimo. Le furono imposti dodici nomi: Maria, Cristina, Beatrice, Teresa, Barbara, Leopolda, Clotilde, Melchiora, Camilla, Giulia, Margherita, Laura: ma solo il secondo nome prevalse: fu chiamata sempre col secondo.

      Tanto lusso di nomi rispondeva alle tradizioni spagnuole, che, non ostante mezzo secolo di dominio austriaco e le violente sovversioni della Repubblica Cisalpina, perduravano in parecchie famiglie dell'aristocrazia lombarda.

      Nelle vene di quella bambina scorreva inclito sangue. Discendeva ella dalla principesca famiglia dei Trivulzi, fondata nel secolo duodecimo, e che avea dato alla storia il fulmineo Gian Giacomo Trivulzio, maresciallo di Francia, conquistatore e crudel governatore di Milano per re Luigi XII.

      Mens unica sta scritto sullo stemma dai tre volti dei Trivulzio; motto superbo che quel superbo guerriero non meritava.

      La piccola Cristina nacque tre anni dopo l'incoronazione di Napoleone I nel Duomo; nacque in mezzo ai fugaci bagliori del primo Regno italico, ella che dovea sorgere così accesa sostenitrice del secondo Regno.

      Suo padre era il giovane erudito marchese Gerolamo Trivulzio, nominato da Napoleone cavaliere della Corona Ferrea e ciambellano di Eugenio Beauharnais, vicerè d'Italia. Sua madre era donna Vittoria Gherardini, dama d'onore della virtuosa, soave viceregina Amalia Augusta di Baviera, lodata da Ugo Foscolo nelle Grazie.

      Padrino della neonata fu un altro cavaliere di quella Corona Ferrea, a cui tanto teneva Napoleone: e fu un altro Trivulzio: don Giacomo.

      Il curato di Sant'Alessandro, Antonio Orombelli, subito dopo d'aver battezzata la figlia d'una delle più eccelse famiglie, immergeva, secondo il rito ambrosiano, nell'acqua lustrale il capo d'una bambina del popolo. Così, fin dai primi momenti della vita, colei che doveva pensare con tanto fuoco alla rigenerazione del popolo italiano, si trovava in contatto col popolo.

      In casa Trivulzio, il sentimento dell'antica nobiltà durava profondo. Rimase lungo tempo famosa pe' suoi sensi accanitamente aristocratici una Trivulzio, donna Margherita, vissuta fino ai primi del secolo XIX, zia di questa bambina. Al curato di Sant'Alessandro, che per temperare l'orgoglio di lei con uno spruzzo d'umiltà cristiana le andava dicendo: — Signora marchesa, infine siamo tutti vermi! — ella con uno scatto rispondeva:

      — Sì, sono un verme, ma Trivulzio!

      Questa patrizia volle rimaner nubile per non contaminare lo splendore del sangue. Nessun nobile, secondo lei, poteva competere coi discendenti del maresciallo, il quale dormiva il sonno eterno nei sepolcri di San Nazaro sotto la bell'epigrafe: Qui numquam quievit quiescit. Di mezzana statura, d'aspetto accigliato, donna Margherita si facea trascinare per le vie di Milano nella “bastardella„, il veicolo di quel tempo, in uso presso i ricchi. I domestici doveano stare in piedi, quasi arrampicati, dietro il veicolo; ma della interminabile passeggiata della nobile fiera padrona si consolavano, filosoficamente mangiucchiando castagne. Le accentuate sopracciglia, color del tabacco, di donna Margherita eran note a tutta Milano. Un gran poeta meneghino, Carlo Porta, prese da lei il tipo di donna Fabia Fabron de Fabrian, la vecchia dama della Preghiera, comica pittura di quel tempo in cui le albagie nobilesche tentavano di lottare contro le beffe giacobine?... No; ma il tipo era identico. Donna Fabia così ringrazia il buon Gesù:

      Mio caro e buon Gesù, che per decreto

      Dell'infallibil vostra volontà

      M'avete fatta nascere nel ceto

      Distinto della prima nobiltà,

      Mentre poteva, a un minim cenno vostro,

      Nascer plebea, un verme vile, un mostro,

      Io vi ringrazio che d'un sì gran bene

      Abbiev ricolma l'umil mia persona....

      Tale linguaggio parlava donna


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