La Principessa Belgiojoso. Raffaello Barbiera

La Principessa Belgiojoso - Raffaello Barbiera


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in una commedia milanese di Carlo Maria Maggi, vissuto un secolo prima.

      V'erano bensì alcuni nobili, i quali per ingraziarsi i democratici spadroneggianti sprezzavano, o fingevano di sprezzare, le corone avite; ma quanti altri le tenevan più care, più strette nel loro pugno! Un conte Gaetano Porro (ch'ebbe fine infelice) guidò nei torbidi giorni della Repubblica Cisalpina una turba di furibondi a far saltare sotto i colpi dei martelli i fregi gentilizii delle tombe nella chiesa di San Marco. Altri nobili, invece, la pensavano al pari del conte Vittorio Alfieri, che nelle Satire tuonava:

      Vano è il vanto degli avi. In zero il nulla

      Torni; e sia grande chi alte cose ha fatte,

      Non chi succhiò gli ozj arroganti in culla.

      Ma, se prod'uom, di prodi figlio, intatte

      Le avite glorie, anzi accresciute manda

      Ai figli suoi; questo è splendor che abbatte

      L'oscuro vulgo, e tacito comanda

      Ch'altri dia loco al doppio merto, e ceda....

      Giuseppe Parini, troppo ammirato forse come uomo, mai abbastanza ammirato qual poeta, deride “nel lungo amaro carme„ il “giovin signore„ — ma nella Milano del Parini, quali patrizii d'ingegno alto e d'idee moderne fiorivano! Bastino i Verri e Cesare Beccaria.

      Parte della nobiltà lombarda si gettò ben presto alle cospirazioni per il trionfo di idee liberali che doveano scemare, almeno, se non distruggere, il suo secolare prestigio. E così avvenne di parte dei patrizii piemontesi, e d'altre regioni d'Italia; onde il principe di Metternich, l'austriaco diplomatico, rassomigliante al poeta lord Byron nella testa bellissima quasi femminea, e al Richelieu nel volere, scriveva nel 1850, quando era caduto dal soglio, queste acerbe parole:

      Parmi les symptômes de la maladie de l'époque, il faut compter la position tout à fait fausse que la noblesse ne prend que trop fréquemment. Presque partout c'est elle qui a favorisé les troubles dans leur période préparatoire, et elle s'est effacée lorsqu'ils ont éclaté.[2]

      Tipi come donna Margherita, anzi ancor più strani, nelle classi alte non eran rari. Coi tempi nuovi, che cercano di livellare, d'uniformare, di scolorire, scomparvero certi caratteri bizzarri, i quali rendevano almen più varia la vita. In gran parte, quei caratteri rappresentavano le anomalie fisiologiche, che si palesano in alcuni individui d'antiche famiglie esauste. Il marchese Magenta riceveva gli amici dentro il veicolo da passeggio, la “bastardella„ suddetta, posta in una sala a pian terreno della sua casa. Egli se ne stava rinchiuso dentro, infagottato nel tabarro, colle mani su un caldano di terracotta. I visitatori aprivano la porticciuola, entravano, sedevano di fronte a lui pigiati, e conversavano. Il medico Pietro Moscati, uno dei membri del Direttorio della Cisalpina, poi conte e senatore del Regno Italico, membro dell'Istituto Italiano di scienze e lettere, sosteneva che l'uomo è creato per camminare come i cani.... Neanche il padre di Cristina Trivulzio andava privo di qualche stranezza. E ciò va notato per ispiegare fenomeni d'atavismo, che durante la vita di Cristina si manifestaron col carattere di certe eccentricità che levarono clamore infinito.

      Quando la madre di lei, Vittoria Gherardini, nel fiore de' sedici anni, andò sposa al marchese Gerolamo, compì il primo viaggio di nozze da Milano a Locate (terra dei Trivulzi) attraverso le ampie monotone praterie, lungo i fossati interminabili.... Il viaggio, come quasi tutti i viaggi di nozze, fu muto. La sposa, timida, sbigottita, a un certo momento si fa coraggio e osa avanzare un'umile domanda allo sposo. Ma questi risponde brusco e stranamente. Era il principio d'una vita conjugale non seminata di fiori, e che dovea chiudersi colla morte, quattro anni dopo la nascita della primogenita e unica figlia, Cristina.

      Nemmeno a Corte, la madre di Cristina gioì ore serene. Pranzò un giorno accanto a Napoleone che la spaventò co' suoi modi villani:

      — Che fa vostro marito? — le chiese fissandola. — Alleva i cagnolini?... E voi? perchè non vi mettete sul viso il belletto?

      L'opposto di ciò che a Ofelia dice Amleto nella tragedia dello Shakespeare.

      Vedo il ritratto di lei nelle stanze dove scrivo queste pagine, qui ad Oleggio Castello, in terra viscontea; qui dov'ella veniva nei giorni migliori. L'espressione del suo viso ovale è dolce. Quegli occhi piccoli sotto le sopracciglia leggermente arcuate non doveano balenar lampi imperiosi; quella bocca piccolissima, da bimba, non poteva mormorare che graziose parole. Il naso è lungo, affilato; fino è il collo; il seno, nel libero costume d'allora, balza fiorente; ondulati i capelli; la pettinatura liscia, semplice.

      Ben presto, ella deve vestire il lutto. Il marito s'ammala a Varese. Le aure di quei colli ameni non valgono ad arrestare la malattia, che precipita e lo spegne, il 17 settembre del 1812, a soli trentadue anni. Due giorni dopo, la salma viene trasportata a Milano nei sepolcri di famiglia; due settimane dopo, sono celebrate nella chiesa di Sant'Alessandro pompose, clamorose esequie con ricco catafalco, con musica, e gran folla di sacerdoti. Suo padre, Giorgio Teodoro, l'avea preceduto da più tempo nella tomba; la genitrice, contessa Cristina Cicogna, era morta anch'essa lasciando il proprio nome nella piccola nipote. La sposa rimanea dunque vedova e sola, nel fiore dei vent'anni.

      E qui cambia la scena, e assistiamo a un altro svolgimento della società di Milano.

      In fondo alla via Brera, dove era nato Cesare Beccaria, dov'era vissuto Alessandro Volta, dov'era morto Giuseppe Parini, sorgeva fino a trent'anni fa un vetusto palazzo, che poi venne distrutto per fabbricarvi un casamento moderno. Gian Giacomo de' Medici, il famoso pirata del lago di Como, fratello di papa Pio IV e zio di san Carlo, l'aveva fatto erigere. Si vuole fosse stata in quel posto la dimora di Cicco Simonetta, il ministro onnipotente di Francesco Sforza, colui che la duchessa Bona di Savoja sacrificò agl'intrighi del proprio cameriere Tassini, e che finì decapitato nel castello di Pavia dopo atroci torture sopportate con animo d'eroe.

      Quel palazzo rimase opera incompiuta dell'architetto Seregno. Era maestoso, a un solo piano, con colonne all'esterno, parte erette, parte appena cominciate. Il portone d'ingresso, grandioso, non compiuto nemmen quello. Il tempo aveva steso su tutte le pietre massiccie il suo color fosco, accrescendo austerità all'edificio, il cui interno s'apriva del pari solenne e severo. Un ampio scalone conduceva a una lunga, vastissima galleria di quadri antichi, di bronzi, di stoffe, di porcellane, di lacche, tutte antiche, e tutte in gran quantità, ammonticchiate, confuse.

      In questo museo d'arte, si viveva una vita d'arte. Proprietario e abitatore del palazzo era il conte Cesare Castelbarco, marito della contessa Maria Freganeschi, ultima d'antica e ricchissima famiglia cremonese. Il conte, insieme co' suoi due figli, faceva le accoglienze più festose a letterati e ad artisti di grido. Aveva imparato da sua madre a onorarli: sua madre era la contessa Maria Castelbarco nata Litta per le cui bellezze tremò il vecchio cuore del Parini che scrisse per lei Il messaggio. Il conte Castelbarco eseguiva musica di sua composizione, e recitava sue poesie; poetavano anche i figli. Un burlone non risparmiò per questo il padre e i figli, cantando:

      Fa sonetti a migliaja il conte padre,

      Fa sonetti a migliaja il conte figlio....

      La contessa Maria Castelbarco Freganeschi era grande maîtresse della Corte vicereale; perciò, ogni giorno, allo scoccar delle due, il carrozzone co' servi in livrea di lusso stava ad aspettare a piè dello scalone per condurre la contessa a palazzo; e da una finestra, una vaghissima fanciulla dai grandi occhi, Cristina Trivulzio, colla madre, sogguardava intanto sulla via l'uscita fragorosa della carrozza con la signora.

      La marchesa Vittoria s'era sposata ben presto in seconde nozze al giovane marchese Alessandro Visconti d'Aragona, ed era andata ad abitare col secondo marito e coll'unica figlia del primo, in un'ala di quel palazzo. E fu là che Cristina, la futura principessa Belgiojoso, sviluppò la viva intelligenza; specialmente l'intelligenza musicale. La madre, innamorata dell'arte de' suoni, ne trasfuse nella figlia il sentimento; e in lei lo accrebbero poscia la Malibran, la Pasta e il maestro Nicola Vaccaj, che visitavano la madre, eseguendo in quelle sale musiche appassionate e gentili, onde tutta l'aria d'Italia allora vibrava.

      Alessandro Visconti


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