La Principessa Belgiojoso. Raffaello Barbiera

La Principessa Belgiojoso - Raffaello Barbiera


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Gioachino Crivelli consacrata al Parini: e v'appose, sulla facciata, tanto di busto del grande poeta da lui ammirato.

      Il principe Emilio inclinava, veramente, in quel tempo, ai busti, alle lapidi. La bella e infelice marchesa Bellisomi di Pavia, sposata ad un imbecille, fu disperatamente amata da un Jacopo Ortis lombardo che, in un triste giorno, si fece saltar le cervella nel bosco della villa Belgiojoso presso Pavia. “Al principe Emilio Belgiojoso (racconta non senza malizia Tullio Dandolo nei Ricordi) il fatto romantico parve così buona ventura pel suo parco, che lo ha eternato con una lapide commemorativa in riva ad uno stagno pittoricamente circondato di salici piangenti. Questa tragedia, omai antica, stata clamorosissima, tinse in nero la vita della marchesa, n'esaltò la immaginazione, e la trasse ad un vivere segregato e a quel sentire originale che trapela dalle sue lettere.„

      Ma nella vicina Pavia, in quella fremebonda università dalla quale erano usciti nel 1821 animosi giovani pronti ad ajutare le armi piemontesi per la vagheggiata liberazione della terra lombarda dalla signoria austriaca, si ripetevano intanto le strofe di Giovanni Berchet, sfuggito per miracolo con precipitosa fuga al processo dei Carbonari e forse allo Spielberg. Nessun poeta italiano, nessuno più del Berchet, versò fuoco nelle vene dei giovani; le sue strofe sono saette contro lo straniero. L'austriaco credeva che Milano, Pavia, Brescia, Mantova, Venezia, da esso occupate, fossero città; ed erano popoli: credeva che la tomba dello Spielberg soffocasse ogni aspirazione italiana; e non s'accorgeva dell'opposto; ma s'accorgeva del Berchet.

      Giovanni Berchet era amico di Emilio Belgiojoso; e fu lui, quel fiero poeta delle Fantasie, che spronò il giovane principe a cospirare per la libertà della patria. Quando vede il principe immerso ne' piaceri, il Berchet gli manda lettere acerbe di rimprovero; ed è di rimprovero la lettera che gli lancia da Londra, dove il poeta s'è rifugiato. Questa lettera, intercettata dalla polizia austriaca, ora giace negli archivii segreti del Governo Lombardo a Milano.[7] Il Nicolini cantava:

       Perchè tanto sorriso di cielo

       Sulla terra del vile dolor?

      Perchè obliarsi nelle voluttà sensuali, quando un'altra voluttà, quella delle cospirazioni e de' pericoli, mette brividi nuovi nelle fibre, nell'anima?... Poichè doveva essere ben acre voluttà il cospirare per un ideale sacro, contro una forza che si spiegava tutta contro, co' suoi rigori, co' suoi terrori!... I ritrovi segreti, i colloquii sommessi, i segni di riconoscimento, il linguaggio di convenzione, il carteggio occulto, le fughe, i travestimenti, le veglie, i nascondigli, tutte le audacie, larvate più o meno dall'astuzia, da accorgimenti raffinati, da dissimulazioni, e, nello stesso tempo, il desiderio inquieto, febbrile di propaganda, la smania d'operare, di rompere gl'indugi, di sfolgorare in un tentativo deciso e decisivo, pronti ad ogni pericolo, pronti al castigo, al patibolo.... qual vita, qual vita, che tanti italiani vissero e che furon lieti, superbi d'aver vissuta; soggiogati da quell'ideale, circonfusi, abbagliati da quella luce divina! Oggi quella luce sembra appena un barlume d'incendio remoto; ma allora?... In un popolo, occorre la vita morale. L'assenza della vita morale, l'indifferenza per ciò ch'eleva, è segno di morte.

      Il principe Emilio Belgiojoso si gettò alle cospirazioni, e trovò una sorella di fede patriottica in una radiosa bellezza: Cristina Trivulzio. I due giovani, ammirati e invidiati, sembravan venuti al mondo (si diceva) l'uno per l'altro, tanto brillava fra loro l'accordo di pregi singolari. Perchè non dovevano fondere le loro giovinezze, le loro vite?...

      Il 15 settembre 1824, nella chiesa di San Fedele a Milano, si celebra una solenne, festosa cerimonia. Il ventiquattrenne principe Emilio si sposa a Cristina Trivulzio, otto anni più giovane di lui. Tutta l'alta società lombarda, venuta dalle ville, vi assiste. Come dice enfatica una delle tante dedicatorie nuziali piovute allora per l'occasione, il sacerdote può ripetere dall'altare: “Ai nomi storici delle vostre illustri famiglie, o Sposi, si scorgono in Voi riunite le ricchezze, la gioventù, l'avvenenza, e due belle anime, con vivace ingegno, nelle più nobili discipline educato. Se la felicità non viene a posarsi in mezzo a Voi, in qual luogo della terra si potrà mai sperare ch'essa discenda?...„[8]

      Eppure non discese. Quale errore il matrimonio contratto all'alba della giovinezza, quando la realtà dinanzi agli occhi, velati dall'inesperienza o dal sogno, appare sotto sembianze alterate!... Eppure, una volta, quante spose, sedicenni appena come Cristina Trivulzio, venivan condotte all'altare e avvinte a un destino!

      Cristina Belgiojoso-Trivulzio affascinava per la sua bellezza originale. Di statura piuttosto alta, magra, d'un pallore marmoreo: nerissimi i capelli, e grandi gli occhi scuri, pieni di pensiero; quegli occhi che volean dominare; quegli occhi fatali, dove parea nereggiare un dramma misterioso, e che parlavano anche quando tacevan le labbra. Il collo lungo, e affilate le mani, che, stando seduta, ella giungeva in grembo, fra le pieghe della veste. Tale era allora Cristina Belgiojoso; tale fu dipinta dal pittore Vidal a Parigi, e da Francesco Hayez a Milano alcuni anni dopo. Ma ella non era ancora la grande dame; era la jolie femme, con un'espressione però diversa da tutte le altre: non era ancora la romantica visione del celebre quadro del Lehmann.

      La madre, per sedare gl'impeti vivaci della meravigliosa figliuola, le avea scelti a maestri due uomini d'idee retrive: Francesco Ambrosoli, cuore umile e perciò umiliato, infaticabile lavoratore; e quel Robustiano Gironi, bibliotecario di Brera, che non può aspirare a un monumento patriottico. Entrambi nemici giurati del romanticismo e dei romantici, sostenevano la necessità delle imitazioni classiche. Con la passione che nutrivano delle frasi proprie, precise, tornarono non inutili certo all'ingegno di Cristina Trivulzio. L'ingegno di lei s'allontanava dal sogno poetico, che arride spesso alla giovinezza: era, invece, preciso: ingegno scientifico. Ma amava la musica.

      Sospinta da propria vigoria a larghi orizzonti, ai quali i due precettori non sarebbero arrivati, Cristina Trivulzio alternava le brillanti cavalcate pei viali suburbani con gravi studii; studii superiori alla sua età e al suo sesso gentile. Achille Mauri le fu pure maestro; il Mauri ch'era il rovescio di que' due; spirito aperto alle idee nuove; sognatore d'un'Italia libera e grande. Voleva Cristina invidiar forse gli allori della concittadina sua Maria Gaetana Agnesi, l'illustre matematica? o, almeno, l'altra dotta dama. Clelia del Grillo, moglie a un Borromeo, entrambe ornamento di Milano nel secolo XVIII?... Fatto sta, ch'ella si consacrò agli studii storici, alla filosofia, alle lingue: studiò l'algebra, e un bel giorno volle tentare persino il calcolo sublime.

      Nel giorno delle nozze, qualcuno fece correre un infame epigramma contro la sposa. Era l'epigramma d'un adoratore respinto?... di qualcuno fra i compagni di libere cavalcate? Era l'epigramma di qualche bell'imbusto deriso? — deriso dalla pungente ironia onde le belle labbra di Cristina punivano la fatuità e l'insolenza?... Certo era lo sfogo d'un vile. Così, fin nella sua corbeille de noce, quella donna singolare trovava le vipere, che dovevano assalirla per tutta la vita, e sulle quali ella passeggiò, sempre altera, sempre impassibile dea.

      La folla elegante, che assisteva alle nozze, recava nelle vesti il carattere del tempo. Abbigliamenti sdolcinati per l'uomo: scarpette lievissime che lascian vedere le calze bianche, pantaloni bianchi, panciotto bianco, cravatta bianca, solini a vela bianchi, guanti bianchi: il trionfo del candore. Sulla testa, un cappello a cono rovesciato, detto alla Bolìvar, in omaggio all'emancipatore delle colonie ispano-americane. E le dame doveano sembrar ben deliziose colle loro calze fine, trasparenti, che rivelavano il color roseo del piede nella breve scarpetta! Bianca è la gonna, a campana, tutta pieghe sottili nell'orlo, e stretta alla vita con un cordone. Il cappello è sormontato da piume bianche e legato da un nastro sotto il mento; e l'ala è così larga che un poeta romantico la direbbe l'ala d'un angelo.... L'ala d'alcuni cappellini di raso è tagliata a foggia di cuore. Siamo, infatti, nel tempo in cui il vocabolo “cuore„ è il comun denominatore. Tutte le romanze, sospirate alla spinetta, rimano cuore con amore. E si ama!... — Ma si amavano i due principi sposi?

      Dopo la cerimonia nuziale, gli sposi andarono a Merate, nella villa dei Belgiojoso. Meglio i rifugii solitarii, in un angolo tranquillo del mondo, che i “viaggi di nozze„ profanatori vulgarissimi dei misteri più delicati e più sacri della vita. Ma quel recesso di Merate sembrava troppo melanconico alla giovane sposa; le pareva un recesso più adatto a recitare il carme dei Sepolcri che l'epitalamio di Catullo. Quella lunga, interminabile, doppia fila


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