L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico. Gaetano Negri
andar avanti, era non meno difficile tornare indietro, facendo risalire alle molte navi la corrente del Tigri e dell'Eufrate. Ci sarebbe voluto, dice giustamente Libanio, la metà dell'esercito, impiegata al rimorchio, ciò che avrebbe lasciata indifesa agli assalti dei Persiani tutta la spedizione144. Ed allora [pg!106] Giuliano fa questo piano, ancor più folle che audace — abbandonare le vie fluviali che erano state fino allora la sua base d'operazione, bruciare la flotta con tutte le provviste, onde impedire che cadesse in mano del nemico, e gittarsi nell'interno del paese, dove sapeva di trovare terre fertili, erbaggi e messi abbondanti. Senza credere all'esistenza di quel complotto persiano, di cui parla Gregorio di Nazianzo145, e di cui egli, con scherno vittorioso, addita, in Giuliano, la vittima stolta, si può ammettere la probabilità, riconosciuta anche da Ammiano146, che guide ignoranti o false abbiano illuso e traviato l'infelice imperatore, sempre troppo facile a credere ciò che gli andava a genio. Stabilito il piano, con quella prontezza di risoluzione, che era un elemento di riuscita nelle buone idee, ma un precipizio di rovina nelle cattive, Giuliano lo mette in esecuzione. Abbrucia tutta la flotta con le sue immense provviste, non conservandone che dodici da portar seco per la costruzione dei ponti, ed abbandona, con tutto l'esercito, la sponda sinistra del Tigri.
La stella di Giuliano è tramontata. Egli non ha che pochi giorni di vita, e son giorni di ansie terribili, glorificati da un eroismo che nella sventura giganteggia. Le guide lo tradiscono, e l'esercito erra senza direzione. La sua posizione è resa gravissima dalla condotta del nemico. I Persiani, veduto l'errore di Giuliano che si era, da sè stesso, privato della sua base d'operazione, si guardan bene dal venire a nuova battaglia, ma sistematicamente si [pg!107] accingono ad incendiare ed a distruggere le erbe ed il grano delle regioni circostanti, così da affamare l'esercito romano, il quale soffriva insieme pel calore eccessivo, per le morsicature degli insetti e per la piena delle acque147. Non giungendo gli aspettati aiuti dall'Armenia, Giuliano, vedendo impossibile mantenere il suo proposito, si risolve di ritirarsi piegando al Nord, per modo da raggiungere paesi più temperati, che avrebbero offerto all'esercito il necessario sostentamento. La marcia dei Romani procede per alcuni giorni difficilmente, in un paese devastato, disturbata continuamente dai Persiani che attaccano la retroguardia o i drappelli isolati. L'esercito del re Sapore segue ormai da presso i Romani in ritirata, e l'enorme polverio che si solleva all'orizzonte è indizio della sua presenza. Finalmente, nel piano di Maranga, si viene a battaglia148. È bello leggere in Ammiano, che assisteva alla battaglia, la descrizione dell'esercito persiano, in cui si trovavano due figli del re e molti satrapi, delle armature meravigliose, degli arcieri infallibili, degli elefanti spaventosi. Davanti a questo pauroso spettacolo, Giuliano riacquista tutta la sua prontezza di spirito e l'audacia sicura del concitato imperio. Per impedire ai famosi arcieri persiani di far strage da lontano dei suoi soldati, raccoglie in un denso nucleo gli invincibili fantaccini di Roma e della Gallia, e fa una carica a fondo sulla fronte del nemico che non sostiene l'urto e si volge in fuga, lasciando il terreno coperto di morti. Una grande vittoria, ma una vittoria inutile. Pei tre giorni consecutivi [pg!108] l'esercito di Giuliano sta tranquillo negli accampamenti, per ristorarsi e curar le ferite. Nella notte del terzo giorno, Giuliano, che partecipava a tutti gli stenti dei suoi soldati, si alza dal duro giaciglio. Come al solito — mirabile serenità di spirito — stava scrivendo e meditava su di un libro di filosofia, quand'ecco gli appare un fantasma. È quel medesimo Genio che a Parigi, nella notte della sua proclamazione, gli aveva imposto di accettar la corona imperiale. Giuliano or lo rivede, ma mesto e col volto dimesso uscir dalla tenda e abbandonarlo. Il forte uomo non si scoraggia. Sia fatta la volontà degli dei, egli dice in cuor suo, ed esce a cielo scoperto, ed ecco una stella cadente, di singolare splendore, attraversar il cielo e svanire. All'alba egli chiama gli aruspici etruschi per chieder loro che voglia dire l'apparizione di quella stella evanescente. È un segno funesto, rispondono gli aruspici. Ogni impresa, ogni tentativo deve, per quel giorno, essere sospeso149. Ma Giuliano, che era superstizioso più per sistema che per convinzione, e che non mancava mai di interrogare gli auguri, salvo a far ciò che già prima aveva deliberato, muove l'esercito, appena è chiaro il giorno. La lunghissima schiera era già in marcia, con opportune difese sui fianchi, e Giuliano si trovava all'estrema avanguardia, quando gli si reca l'annuncio che la retroguardia è stata assalita dai Persiani. L'imperatore senza indugiare a vestirsi la corazza, afferra uno scudo, vola a portar aiuto ai suoi quando ecco apprende che anche l'avanguardia, da lui appena lasciata, è stata assalita. Ritorna [pg!109] indietro per rinfrancarla ed ordinarla, ed ecco anche il fianco riceve l'urto del nemico. Ma il mirabile guerriero è dovunque si addensa il pericolo, incoraggia, dispone, guida all'assalto, e riesce, ancora una volta, a porre in fuga l'esercito persiano. Giuliano, ormai certo della vittoria, si slancia all'inseguimento, ed alzando le braccia, dimentico di essere disarmato, eccita i soldati a tenergli dietro, quando un'asta, scagliata mai si seppe da chi, trapassandogli il braccio, va a conficcarsi nel petto. Egli cerca di strappare il ferro, ma cade da cavallo ed è portato nella tenda. Dopo alcuni istanti, calmatosi lo spasimo, l'eroe vuol ritornare alla battaglia, ma le forze gli mancano e ricade. Intanto la notizia del disastro, diffusasi come un lampo, nell'esercito che adorava il suo imperatore, lo infiamma d'ira e di dolore, e lo spinge alla vendetta. I Persiani sono respinti con perdite enormi, e Giuliano può morire in pace.
Chi ha scagliato contro Giuliano l'asta mortale? Il sospetto di un tradimento non è del tutto escluso. Infatti, Ammiano ci narra che, alcuni giorni dopo, trovandosi i Persiani sopra un'altura da cui potevan mandare e frecce e parole ai nemici, li insultavano verbis turpibus, chiamandoli uccisori del migliore dei principi, perchè, aggiunge lo storico, era corsa la voce che Giuliano fosse perito per arma romana — Iulianum telo cecidisse romano —150. E, naturalmente, da parte degli amici dell'imperatore, nacque subito il sospetto che il colpo partisse da un cristiano. Guardiamo, infatti, ciò che narra Libanio.
La morte di Giuliano è narrata da Libanio in modo [pg!110] concorde con quanto sappiamo da Ammiano. Anch'egli ci dipinge l'imperatore che, nel fitto della battaglia, spinge il cavallo là dove vede maggiore l'impeto del nemico, e manda manipoli di soldati in aiuto dove appare il bisogno, e distribuisce i migliori fra i suoi duci nei punti più combattuti. La vittoria era sicura. «Ahi, esclama Libanio, o dei, o demoni, o mutamenti della fortuna, a quali ricordi io mi vedo condotto! Non è meglio che io mi taccia, e fermi il discorso alla sua parte più gradita?»151. No, continua l'oratore, è meglio che io parli, onde far cessare una notizia non vera intorno alla morte dell'imperatore. Questa notizia è che Giuliano sia stato ferito da un giavellotto persiano. Libanio crede, come or vedremo, che il colpo sia partito da uno dei suoi, ed egli ci fa intendere da un cristiano. Dunque, narra Libanio, i Persiani, stanchi e sfiduciati, stavano per ritirarsi, col proposito di mandare l'indomani a trattar della pace. Se non che, essendo nata un po' di confusione nell'esercito vincitore, perchè una parte si era spinta troppo avanti in confronto dell'altra che stava ancora sulla difesa, ed insieme oscurandosi il campo di battaglia pei nuvoli di polvere che un vento improvviso sollevava, Giuliano, seguito da un solo soldato di servizio, correva avanti per riallacciare le due parti dell'esercito che si erano slegate, quando un giavellotto lo colpisce, disarmato com'era, ed, attraversandogli il braccio, gli entra nel fianco, e gli infligge una ferita mortale. «L'eroe cadde per terra, e vedendo uscir con impeto il sangue, e pur volendo nascondere il fatto, risaliva tosto a cavallo, e siccome il sangue rivelava la ferita, gridava [pg!111] di non spaventarsene, che non era mortale. Così diceva, ma fu vinto dal fato crudele». Ma chi è stato il feritore? chiede Libanio. Non è stato un Persiano, perchè, sebbene grandi premi fossero promessi a chi avesse provato di aver scagliato il colpo, nessuno si presentò. «Essi, dice amaramente Libanio, ci lasciarono cercare, in mezzo a noi, l'uccisore». E qui viene l'insinuazione contro i Cristiani. «L'uccisore, continua Libanio, dobbiamo cercarlo fra coloro ai quali pesava che Giuliano vivesse — ed eran quelli che vivevano contro le leggi — che già prima lo avevano insidiato, e che ora, potendolo fare, avevano compiuto il misfatto, mossi dal loro animo perverso, il quale si sentiva impotente sotto il regno di lui, sopratutto in ciò che si riferiva alle onoranze degli dei, che essi contrastavano».
Sedici anni dopo, Libanio, nel discorso diretto all'imperatore Teodosio, appena chiamato a reggere l'Oriente, per muoverlo a vendicare Giuliano, ritorna alla carica, e, non conoscendo ancora le tendenze cristiane del nuovo imperatore, lo eccita contro i Cristiani, additandoli come i colpevoli. Egli dice che Giuliano fu ferito da un certo