L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico. Gaetano Negri
stesso, con un esercito di 65,000 uomini, discende all'Eufrate. Da Carra va a Callinice, dove celebra la festa solenne della Madre degli dei e riceve l'ambasceria dei Saraceni che si prosternano devoti innanzi a lui. Indi arriva a Circesio, al confluente dell'Abora coll'Eufrate. [pg!100] Qui assiste all'arrivo dell'immensa flotta, da lui allestita, che comprende mille navi onerarie, cariche di provviste e di strumenti bellici, più cinquanta altre da combattimento, ed altre ancora coi materiali da ponte135. A Circesio, Giuliano riceve una lettera del fido Sallustio, da lui nominato prefetto della Gallia, che lo supplica di non avventurarsi in un'impresa funesta, di non commettere un errore che potrebbe essere irreparabile. Giuliano non dà retta alla voce del lontano amico. Ma, nel suo campo stesso, intorno a lui, v'era un partito contrario alla spedizione. E questo partito cercava d'influire sull'animo di Giuliano, interpretando in modo sfavorevole alla spedizione tutti i segni, tutti gli indizi che l'accompagnavano. Nella restaurazione del Paganesimo, inaugurata da Giuliano, la superstizione teneva, come vedremo, un posto eminente. Il misticismo neoplatonico, che si fondava sull'ingerenza continua del soprannaturale nelle cose del mondo e che era tutto un complesso di miti e di simboli, dava un'enorme importanza alla scienza augurale. L'uomo, pur che ne tenesse la chiave, avrebbe potuto leggere, nei segni che lo circondavano, il suo futuro, e prenderne un consiglio infallibile. Giuliano aveva, dunque, con sè una schiera di auguri e d'interpreti, ai quali, ad ogni istante, ricorreva. Ora, è curioso che costoro gli dessero sempre delle spiegazioni tendenziose, miranti allo scopo di fermare l'impresa. Quegli auguri non hanno che presagi di disastri e di morte. È, dunque, evidente che quelle loro interpretazioni rispondevano a desideri ed a convinzioni che correvano almeno in una parte del campo di Giuliano. [pg!101] Ed è poi più curioso ancora il vedere come Giuliano, il quale aveva l'idea fissa di andar avanti, sa interpretare quei medesimi segni in un senso opposto e favorevole al desiderio suo. Per troncar ogni esitanza, Giuliano raccoglie l'esercito intorno a sè, e pronuncia un discorso infiammato, al quale i soldati, specialmente le fidate e provate legioni galliche, rispondono con acclamazioni e gridi di entusiasmo136.
Il racconto di questa spedizione persiana, che ci è fatto da Ammiano, il quale ne era parte e ci narra ciò ch'egli stesso ha veduto, è una delle relazioni più interessanti che l'antichità ci ha tramandate, e non è indegna di figurare presso i Commentari di Cesare o l'Anabasi di Senofonte. La narrazione di Ammiano è, in qualche parte, completata dal racconto che ne fa Zosimo137 che attingeva, evidentemente, oltre che ad Ammiano, a qualche altra fonte, e da quanto narra Libanio, nel discorso necrologico. Quest'ultimo non ha la pretesa di dare una relazione, rigorosamente militare, come quella d'Ammiano, od una narrazione ordinata, per quanto sommaria, come quella di Zosimo, ma ci presenta pitture ed episodî che riproducono vivacemente l'uomo, il paese e l'ambiente.
Ciò che più attrae, in tutti questi racconti, è lo spirito genuinamente eroico che muove Giuliano in ogni suo atto, in ogni sua parola. La sapienza del capitano che tutto prevede ed a tutto provvede, il valore incomparabile del guerriero, la magnanimità del vincitore, la comunione completa della sua vita con quella dei suoi soldati, l'arte con cui sa affezionarseli, [pg!102] ora rimproverandoli, ora lodandoli, ora esaltando la grandezza dell'impresa a cui si sono accinti, sono doti preziose che, unendosi in lui, fanno di lui una delle più cospicue e nobili figure della storia, certo la più nobile nella decadenza dell'impero.
Ma che profondo errore era mai quello che trascinava Giuliano nella sua folle impresa! Egli diceva al suo esercito: — «Io porrò sotto il giogo i Persiani, e così avrò restaurato lo scosso orbe romano!» — Era questa una specie di suggestione che tutti gli imperatori, buoni e cattivi, si trasmettevano l'un l'altro. E, intanto, mentre essi sciupavano le forze in questa inutile impresa, si addensava, nelle misteriose regioni del Settentrione, il turbine che tutto e tutti avrebbe travolto.
Avute in dedizione, quasi senza combattere, le città di Anatha e di Macepracta, Giuliano trova la prima ostinata resistenza nella fortezza di Pirisabora sull'Eufrate. L'imperatore vi compie prodigi di valore, gittandosi egli stesso sotto la testuggine degli scudi, e sconquassando le porte della città, mentre dall'alto precipita una tempesta di proiettili. Ma, resistendo i difensori, fa costrurre una macchina gigantesca, la quale incute loro tale spavento da persuaderli alla resa e ad invocare la sicura magnanimità del vincitore, il quale, presa Pirisabora, continua il suo cammino vittorioso, atterrando ogni ostacolo, superando le difficoltà della marcia in un terreno frastagliato dai canali d'irrigazione ed artificialmente inondato138. Assedia la città di Maiozamalca, presso [pg!103] la quale sarebbe caduto trucidato, durante un'arrischiata perlustrazione da lui stesso eseguita per riconoscere la posizione, se, con singolare prontezza e valore, non si fosse difeso139. Non riuscendo a vincere, con le sue macchine, la resistenza della fortezza, vi entra, per mezzo di un cunicolo sotterraneo, e se ne impadronisce. Superato questo punto di forte difesa, Giuliano, abbattendo tutti gli ostacoli che gli si paran davanti, giunge ad un immenso canale, già scavato da Traiano per mettere in comunicazione navigabile l'Eufrate col Tigri. Libanio ci dice che Giuliano già conosceva, per lo studio dei documenti, l'esistenza di questo canale, così che i prigionieri, da lui interrogati, trovarono inutile di fingere l'ignoranza alle sue domande, e gli rivelarono tutti i dettagli della costruzione140. I Persiani avevan chiuso e parzialmente otturato il canale. Ma a Giuliano quella via era preziosa, onde entrare, con tutta la flotta, nel Tigri. Egli, dunque, fa riaprire il canale, in cui fluiscono le acque dell'Eufrate, portando le navi imperiali, ch'egli fa seguire dall'esercito, il quale, passato su di un ponte il canale, va ad accamparsi sulla destra del Tigri. La sinistra era fortemente difesa dai Persiani e di difficile accesso. Ma l'audace imperatore pensa di assalirla e di conquistarla. Tutti i suoi capitani sconsigliano l'imprudente tentativo. Giuliano non si smuove. Di notte, manda alcune navi, con pochi volonterosi audaci, a sorprendere il campo nemico. Ma il nemico è vigile, e, gittando materie incendiarie, infiamma le navi. Il grosso dell'esercito che, sull'altra sponda del Tigri, [pg!104] aspettava ansiosamente il cenno per imbarcarsi, crede perduto il drappello valoroso. Quand'ecco Giuliano, con la sua solita prontezza di spirito, percorrendo la fronte e gridando: — Vittoria, vittoria! Quelle fiamme sono il segno convenuto che il colpo è riuscito, che la riva è nostra — trascina con sè i soldati che si precipitano alle navi, ed, attraversato il Tigri, si trovano di fronte i Persiani, e sono costretti a combattere141. Ne viene una grande battaglia che, dopo molte ore, si risolve in una completa vittoria per l'esercito romano. Giuliano che, durante la giornata, aveva compiuto prodigi di valore e di abilità tattica, può ormai credersi al termine di una gloriosa campagna che rammenta i fasti antichi e pare segni veramente il rifiorimento dell'impero.
Ma qui avviene un fatto strano, impreveduto, un fatto terribilmente funesto che basterebbe, anche solo, a provare come fosse poco equilibrata la mente di quel giovane geniale. La campagna si poteva dire guadagnata. Giuliano si trovava alle porte di Ctesifonte, la capitale persiana. Questa città era difesa da un esercito sconfitto; il prestigio militare di Giuliano era, per sè stesso, l'arma più potente. In ogni modo, il vincitore di Pirisabora, di Maiozamalca, l'audacissimo fra i condottieri non poteva arretrarsi davanti all'ultimo sforzo. Che fa, invece, Giuliano? Si ferma cinque giorni ad Abuzata, presso il campo della sua vittoria, e vi raccoglie un consiglio di guerra. E questo è unanime nel dissuadere l'imperatore a tentare la presa di Ctesifonte, perchè, si dice, sarebbe pericoloso impegnare l'esercito in questa operazione, mentre potrebbe [pg!105] sopraggiungere il re Sapore, col suo esercito, che, fino allora, era stato lontano dai luoghi dell'azione142. Quel Giuliano che non dava mai retta ai consigli altrui, che non obbediva nemmeno agli auguri, se non quando predicevano ciò ch'egli desiderava, che, malgrado le preghiere, gli scongiuri di tutti i suoi generali, aveva tentato l'arrischiatissimo passaggio del Tigri, questa volta si arrende e rinuncia, per un pericolo ipotetico, a quell'ultimo atto della guerra che pareva dovesse esserne il termine glorioso. Ciò vuol dire che l'abbandono di Ctesifonte era già prestabilito nell'animo di Giuliano. Ma perchè? Forse l'inquieto avventuriero era già stanco dell'impresa persiana, che ormai gli sembrava troppo facile, o, almeno, aveva perduto per lui il fascino dell'ignoto. La gloria di Alessandro balenava ai suoi occhi. Le sue aspirazioni non si fermavano all'Eufrate ed al Tigri; i fiumi dell'India lo chiamavano con un'attrattiva potente appunto perchè vaga e lontana. — Tendeva il pensiero ai fiumi dell'India — dice Libanio143.
Ora, la difficoltà di procedere alla presa di Ctesifonte era un buon pretesto per slanciare l'esercito