L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico. Gaetano Negri

L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico - Gaetano Negri


Скачать книгу
che, insieme al bisogno di fuggire dalla [pg!94] città che gli ricordava i suoi delitti128, aveva indotto Costantino a trasportare la capitale dell'impero da Roma a Bisanzio, il pregiudizio che il centro di gravità del mondo civile fosse l'Oriente, per cui lì si richiedevano le maggiori difese, lì era il maggior pericolo, lì doveva conservarsi e salvarsi la civiltà. Le invasioni e i tumulti barbarici, che costringevano gli eserciti imperiali a lotte continue al nord delle Alpi e lungo le rive del Reno e del Danubio, non erano che episodi gravi talvolta, ma che pareva non avrebbero mai compromessa la compagine dell'impero. Giuliano, che pur aveva combattuto, per cinque anni, corpo a corpo, coi Germani, non aveva, neppur lui, misurata la grandezza del pericolo, non aveva presentita la vicina rivoluzione del mondo. Nutrito, fino al midollo, di coltura ellenica, riviveva nel tempo in cui la Grecia aveva salvata la civiltà occidentale, resistendo con immortale eroismo alle armate di Dario e di Serse. L'idea di rinnovare quelle lotte gloriose e di sconfiggere la potenza persiana, che riappariva minacciosa, aveva per lui un'irresistibile attrattiva. Eppure, egli era vittima di un'illusione. La Persia era una forza pressochè esaurita, e che, in ogni modo, sarebbe stata sempre incapace di porre a serio repentaglio la sicurezza dell'impero. Ben altro era il pericolo barbarico. Un imperatore di genio avrebbe dovuto cercare di andar alla radice del male, togliendo l'impero alla minaccia di invasioni distruggitrici. Se Giuliano, seguendo l'illuminato consiglio che dalla Gallia gli mandava il fido Sallustio129, avesse lasciato in pace i Persiani, e poi, passando il [pg!95] Danubio, avesse radicalmente domati i Goti, e collocato, nel centro della Pannonia, un organismo di civiltà e di colonizzazione che impedisse il movimento delle orde orientali sui popoli germanici e il conseguente spostamento di questi dalle loro sedi, egli avrebbe, forse, davvero salvata la civiltà. Oppure, avrebbe potuto ritornare nella sua Gallia, e, padrone assoluto di tutte le forze dell'impero, far di questa un punto di partenza, per l'invasione e la soggezione della Germania, promuovendo a rovescio, cioè, verso la Persia e verso l'India, il movimento di emigrazione che riuscì fatale all'impero ed alla civiltà. Ma Giuliano non vedeva, non pensava che la Persia. Nel 337 il re Shapur o Sapore, come lo chiama Ammiano, aveva presa l'iniziativa della guerra contro l'impero, e Costanzo, durante il suo regno, era stato continuamente afflitto da quella preoccupazione, perchè la guerra si trascinava malamente, senza mai venire ad una definitiva conclusione. Quando Giuliano, apertamente ribelle, mosse contro il cugino, questi, come sappiamo, potè volgersi contro di lui, perchè esisteva col re Sapore una tregua, se non per accordo stabilito, almeno per tacita intesa. Ma le cose eran rimaste in una condizione di incertezza da giustificare, nell'apparenza, l'impresa che Giuliano desiderava di compiere. La campagna infelice, condotta da Costanzo contro i Persiani, nella quale, malgrado la grandezza dei preparativi, egli non aveva data altra prova che di debolezza e di paura, aveva siffattamente aumentato il prestigio del nome persiano da paralizzar del tutto l'energia dell'esercito imperiale. Libanio130 fa una vivace pittura [pg!96] dell'avvilimento dei soldati, prodotto dalla coscienza che essi avevano della superiorità dei Persiani. «Era tanto e così fondato in essi il timore dei Persiani, accumulatosi in molti anni, da potersi dire che essi li temevano anche dipinti». È certo che questa condizione dello spirito militare fu, per l'eroico Giuliano, uno stimolo a gittarsi nell'impresa, col proposito di risollevarlo mercè il vigore della condotta e l'esempio del valore, come, infatti, gli riuscì. «Questi uomini così avviliti quell'eroe, li condusse contro i Persiani. Ed essi lo seguirono, memori ancora dell'antico valore, e persuasi di attraversare intatti anche il fuoco, pur che seguissero i suoi consigli».

      ❦

      Risoluto di portarsi, col suo esercito, sull'Eufrate, l'imperatore lascia, nell'estate del 362, Costantinopoli, e va prender dimora ad Antiochia, onde esser più vicino al teatro della guerra, e farne il centro dei grandi preparativi che, nella sua sapienza delle cose militari, ben sapeva necessari all'audace impresa. Percorre, nel viaggio da Costantinopoli ad Antiochia, una regione a lui nota e cara. Si ferma a Nicomedia, e piange col popolo la rovina della già splendida città, presso che annientata dal terremoto, e rivede antichi amici e compagni di studio. Tocca Nicea, e fa una gita a Pessinunte onde visitare e venerare l'antico santuario della Madre Cibele. E qui, nella notte, l'infaticabile uomo scrive il suo lungo discorso intorno alla Madre degli dei, uno dei principali documenti della sua dottrina mistica e mitologica. Poi, passando per Ancira e Tarso, entra in Antiochia, orientis apicem pulcrum, come la chiama Ammiano che vi era [pg!97] nato, accolto fra immense acclamazioni, che lo salutavano come un astro salutare novellamente acceso in Oriente.

      Giuliano rimase ad Antiochia dall'agosto del 362 al marzo del 363. Questi pochi mesi costituiscono uno degli episodi più interessanti della vita di Giuliano. Antiochia era una città di piaceri e di lusso. La sua popolazione mobile d'animo, leggera, rumorosa e maldicente, di null'altro desiderosa che di svaghi e di spettacoli, aveva accolto con entusiasmo il giovane imperatore, perchè aveva supposto di trovare in lui un promotore di divertimenti, un esempio di dissolutezza. Il disinganno è stato profondo ed acerbo. Giuliano amministrava la giustizia con somma equità e temperanza; egli stesso si occupava delle condizioni economiche della città, regolava i prezzi delle derrate, curava l'approvvigionamento, provvedeva ai bisogni edilizî, era infine, un sovrano esemplare, ma viveva, insieme, con sì grande severità di costumi, mostrava un tale aborrimento degli spettacoli pubblici, si sprofondava, con una così assorbente intensità di volere e di lavoro, nei suoi doveri civili e militari, che i frivoli Antiochesi passarono ben presto dalla meraviglia allo scherno ed al disprezzo. Quel giovane che rifiutava tutte le mollezze del lusso orientale, che affettava la rozzezza nel portamento e nel vestire, che portava la barba, che non aveva nessuno dei requisiti che essi si erano imaginati di trovare in lui, divenne per loro cordialmente antipatico e, siccome ben si sapeva che l'impertinenza sarebbe rimasta impunita, i poetastri e i libellisti approfittarono dell'indulgenza dell'imperatore e sparsero per Antiochia satire ed epigrammi che formavano la delizia della frivola città. Ma Giuliano, se non ha puniti gli impertinenti, come altri [pg!98] sovrani avrebbero fatto, ne prese una vendetta allegra, che sarà, più tardi, argomento del nostro studio.

      ❦

      Finalmente, compiuti con ansia febbrile i preparativi, distribuite le truppe nelle varie stazioni, fatti immensi e solenni sacrifici a Giove, nel marzo del 363, Giuliano parte da Antiochia diretto all'Eufrate. Poco prima di partire, aveva ricevuta una lettera del re di Persia, il quale, sgomentato dalla fama guerresca del giovine imperatore, lo pregava di accogliere una sua ambasceria e di comporre, con un trattato, il loro dissidio. «Tutti — scrive Libanio — applaudendo e compiacendoci, gridavamo che accettasse. Ma egli, gittando via con disprezzo la lettera, disse che sarebbe stato il più vile dei partiti il venir a trattative col nemico, mentre giacevano al suolo tante città distrutte. E rispose non esservi bisogno di ambasciatori, giacchè fra breve, egli stesso, sarebbe venuto a vedere il re...»131. Superba risposta, indizio eloquente del completo acciecamento, della folle ostinazione dell'apostata invasato che la mano di Dio, dicevano i Cristiani, spingeva al precipizio. Al re d'Armenia, suo alleato, raccomanda di tenersi pronto per eseguire gli ordini che verrà a ricevere. Nel lasciar Antiochia, nomina prefetto di Siria un severo amministratore, Alessandro, affermando che solo la severità ed il rigore potevano tener in pace l'insolente città, ed alla folla che lo accompagnava alle porte, e gli augurava felice ritorno, [pg!99] pentita del suo contegno verso di lui, rispondeva acerbamente che non l'avrebbero mai più veduto, perchè, ritornando dalla Persia, avrebbe svernato a Tarso. Non pare che gli Antiochesi si rassegnassero a questa specie di decapitazione, minacciata alla loro città, poichè da una lettera di Giuliano a Libanio, in cui narra il suo viaggio fino ad Jerapoli, vediamo che a Litarbo, la sua prima tappa, fu raggiunto dal Senato d'Antiochia, col quale egli ebbe una segreta conferenza. Giuliano non ne dice il risultato, riservandosi di parlarne a Libanio, se gli dei gli concederanno il ritorno132. Ma è certo che vi si trattò della pace fra l'imperatore e la città; pace, la cui conclusione stava tanto a cuore del retore antiochese che, onde promuoverla, scriveva due discorsi, l'uno agli Antiochesi, per indurli al pentimento delle offese fatte all'imperatore, l'altro all'imperatore stesso per indurlo al perdono.

      Con la sua consueta rapidità, Giuliano passava l'Eufrate e giungeva a Carra, donde partivano due strade, di cui l'una, attraversando la Mesopotamia, da Ovest ad Est, raggiungeva il Tigri, l'altra scendeva al Sud lungo l'Eufrate. Manda per la prima Procopio e Sebastiano con 30,000 uomini, dice Ammiano133, con 18,000, dice Zosimo134, onde difendere il suo


Скачать книгу