Gli Uomini Rossi. Beltramelli Antonio
era nato mai il desiderio di leggere queste lettere?
— Mai.
— Peccato! Perchè sono veramente degne di essere osservate!
Don Barchetta volse gli occhi al soffitto in atto di squisita distrazione.
— Pare impossibile — riprese il maestro e donno — sembrano scritte su la falsariga di un epistolario galante.
— Davvero? — chiese la contessa, maravigliandosi.
— Proprio così. Sentite.
«... ah! i bei tramonti, i bei tramonti, ricordi Didino mio? su le vette della Cescara, al castello di Belfiore, alle sorgenti del tuo azzurro fiume di cui mi sapevi dire tante cose e sapevi con fascino sì grande narrarmi gli incantesimi. Quanto ti ho amato, quanto t'amo ancora per la tua dolcissima parola fascinatrice, irresistibile, avvolgente.
«Io sono una povera paglia in tuo dominio e tu mi possiedi.
«Ora sono solo, così solo che tutto mi fa sospirare e non penso che a te, e te vedo in tutte le cose e di te parlo ai boschi, alle nubi che scendono verso la lontanissima pianura, al sole che muore nel tuo bel mare pieno di vele rosse.
«Ritorna, ritorna, io ti desidero con tale ardente affetto quale forse non potrai supporre.
«Tutto ti aspetta qui, vieni. Il tempo non sarà avaro a noi di ore deliziose, vieni, vieni!»
— Eccetera! — aggiunse Monsignor Rutilante.
— Si volevano molto bene, infatti! — disse la contessa.
— Pare! — esclamò Don Barchetta.
E Don Eucarestia, un prete ormai vecchio e di costumi antichi, aprì per la ventesima volta la tabacchiera d'argento.
— Ci si sente l'influsso d'annunziano — riprese Monsignor Rutilante.
— Questo poi!.. — sorse a dire con impeto la contessa Gilarda.
— Perchè vi maravigliate?
— Perchè nè Fedele, nè Didino hanno letto mai un libro di quello scomunicato!
— Ne siete ben sicura?
— Sicurissima. Le letture di mio figlio le ho sempre regolate io.
— Che cosa leggeva, per esempio?
— Che so?.. I promessi sposi; La monaca di Monza; il Leopardi...
I tre preti si guardarono in viso spinti da uno stesso sentimento di indignazione, ed esclamarono in coro, prolungando le vocali:
— Il Leopardi?
— È un gran male? — chiese con timido sorriso la contessa.
— O beata inscienza! — esclamò Monsignor Rutilante: — Per te è forse il regno dei cieli; ma quante anime si perdono su la terra per la tua mala guida!
L'uditorio rimase silenzioso e l'esame continuò più rapido, più aspro, più nervoso.
Nella casa non si udiva un sussurro. Era una casa muta, un po' buia, posta in una strada chiusa fra un convento ed una chiesa. Il gran sole che avvolge la piccola umanità litigiosa, vi giungeva a pena sul mattino, per un attimo.
Così, muta nella sua penombra, poteva paragonarsi a qualcosa che stesse fra la camera oscura e la cabina telefonica.
Non appena Monsignor Rutilante ebbe presa visione delle brevi lettere sentimentali, si volse alla contessa Gilarda e disse:
— Una cosa traspare da queste missive, una cosa che non avrebbe dovuto sfuggire alla vostra femminil perspicacia. Fedele, il biondo cuginetto, sapeva tutto ed ha incoraggiato il parente.
— Possibile mai? — esclamò la contessa Gilarda.
— Nè più nè meno di quello che vi ho detto. Ora, per aver ben sicure traccie del fuggitivo, bisogna chiamare al più presto Fedele Barbigi.
— Lo faremo.
— Non v'è altra via. Frattanto i repubblicani, i socialisti e gli anarchici avranno il lor daffare! (A questo penso io!). Così guadagneremo tempo.
— Però... la cosa è fatta! — osservò la contessa. — Non c'è via di scampo! Converrebbe fargliela sposare onestamente.
— Mai! — gridò Monsignor Rutilante levandosi. Gli occhi suoi neri, lampeggiarono d'odio. — Mai! Un servo della Chiesa deve rimanere fedele a' suoi principî, in tutte le azioni della vita.
— E se Gian Battifiore lo vuole?
— Noi siamo più forti contessa; ricordatelo!
— Io affido nelle vostre sante mani il mio destino.
— Così sia! — disse Don Barchetta guardando co' suoi occhi miopi, attraverso ai vetri, un giardinetto malinconico nel quale cresceva, fra quattro mura verdastre di muffa, una vegetazione miserrima.
Il servo, alla chiamata della contessa Gilarda, riaccompagnò i tre preti a l'uscita; poi, quando il silenzio ritornò nella stanza semibuia, la signora si diresse verso una porta nascosta da ricchi cortinaggi e, con voce impaziente, si dette a chiamare:
— Messibèll! Messibèll!
Si udì una corsa, un mugolio, indi comparve, aggroppando la coda, tutto tremante e festante, uno di quei piccoli canini africani ch'ebbero in dono da natura, fra le altre bellezze, quella di non avere, sul corpicciuolo malfatto, l'ombra di un pelo.
Messibèll si rizzò su le zampe posteriori, abbassando le orecchie con l'aria di timido ebetismo che è sì propria a questi piccoli amici de l'uomo intelligente. La contessa se lo recò fra le braccia, prodigandogli ogni sorta di vezzeggiativi amorosi e una volta ancora, nelle avversità della vita, riconobbe come l'eterna provvidenza, per istabilire il divino equilibrio delle cose, creasse l'uomo, il dolore e il cane.
CAPITOLO III. Nel quale Gargiuvîn ha una sua esclamazione consueta.
La gaia città del piano, sede degli avvenimenti ch'io narro, ospitava allora una combriccola di anarchici, gente di piacevole eccezione.
Detti anarchici non erano propriamente seguaci de l'etica patologica stirneriana, nè conoscevano l'utopistico comunismo de l'Owen, o gli imperativi categorici del Bakounine e del Kropoktine; erano uomini semplici, fedelissimi sudditi di Sua Maestà la miseria e amanti della libertà che trascina i figli suoi su la terra e sul mare sotto ali di fiamma.
I ben pensanti li chiamavano vagabondi; Augusto Regida, bello spirito gioviale, li diceva gli intellettuali dello strame; ed erano in realtà un po' de l'uno e de l'altro, in giusta misura.
Ora, capo della combriccola, era Gargiuvîn, omuncolo deforme.
S'egli fosse nato nel Medioevo, avrebbe fatto fortuna allogandosi presso qualche Corte quale giullare. Nel secolo de l'acciaio, la creatura del riso, si era votata alla morte.
La gaiezza, allorchè persegue un uomo, gli fa un comodo e ridevole nido nelle cose più scabre.
Gargiuvîn era piccolo e sciancato; le sue gambe divergevano talmente da formare il chiaro disegno di una X. Un viso pallido, magro, dagli occhietti arguti e maligni, aventi sempre un'espressione canzonatoria; i capelli tagliati a fratina e le orecchie dismisurate eran complemento a l'insieme.
Per questo gnomo, i poliziotti, le leggi e la moneta, erano impacci di cui si poteva far senza poichè rappresentavano avanzi di barbarie. La sua anarchia in queste tre istituzioni trovava i suoi punti cardinali.
Lo seguiva Arfàt, uomo alto e bitorzoluto dagli occhi piccolissimi e celesti. Arfàt aveva nella vita due odii: l'acqua e le donne. Si era ascritto al partito anarchico militante perchè doveva a Gargiuvîn cinque lire. Pagava di persona.
Essendo