Gli Uomini Rossi. Beltramelli Antonio

Gli Uomini Rossi - Beltramelli Antonio


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per primo, somma paura.

      Arfàt faceva lo spranghino ed era conosciuto da tutta la città, sì per l'arte sua come per il grido gutturale e indimenticabile.

      Secondo, era Marcôn, piccola ed esaltata creatura, che assumeva pose profetiche. Portava a zazzera i capelli sì che da questo suo costume e dai piccoli occhi neri e dal naso lungo e puntuto, gli era nato il nomignolo di Marcôn che, in dialetto romagnolo, significa cornacchia. Prima di essere anarchico, Marcôn, per seguire la sua manìa divinatoria, diceva la ventura.

      Egli era l'uomo della campagna. Quando l'udivano cantare di lontano le giovanette, gli anziani ch'erano a l'opera nei campi, correvano su la strada e l'aspettavano ridendo e gli battevano le mani in coro.

      Per i contadini Marcôn era un filosofo perchè sapeva di lettere. Tale qualità gli era conferita da l'abito ch'egli avea di recar sempre seco una sdruscita coppia del Libro dei Sogni, ove erano gli alti insegnamenti di magia.

      Per queste qualità e per altre che in seguito si esplicheranno, Marcôn si era fitto in capo di avere avuto da Dio l'incarico di un apostolato e si era ascritto al partito degli anarchici.

      Seguivano Schignòtt, Apulinèr e Don Vitupèri. Schignòtt viveva dei rifiuti degli uomini e sdegnava l'elemosinare. Era quasi ignudo e portava il capo scoperto; un capo adorno da una folta criniera fulva, aggrovigliata, piena di lampeggiamenti cupi.

      L'uomo scalzo amava la luce ed era taciturno.

      Apulinèr e Don Vitupèri venivano ultimi. Un ortolano e un prete; un ortolano mattoide e un prete, ricco come deserti polari.

      Tutta l'anarchia si riassumeva in questi sei tipi i quali non avrebbero minacciata neppur l'ombra di un uomo.

      Pure, nella gaia città del piano, essi erano come il simbolo di ogni crudeltà, di ogni efferatezza onde non avveniva assassinio o furto, senza che la coscienza pubblica ne li incolpasse.

      Così, allorquando, con fulminea rapidità, si sparse fra gli abitanti della città repubblicana, la notizia della scomparsa di Europa, scomparsa che non si poteva ricollegare con nessun plausibile amore tanto da determinarne una fuga, la mente dei più ricorse a un atto di crudeltà compiuto, per ignota e terribile vendetta, dalla tribù selvaggia degli anarchici.

      Gian Battifiore, il quale non poteva per l'alta posizione occupata in paese (disimpegnava la carica di sindaco), iniziare piccole ricerche, il giorno stesso in cui la sua bella figlia aveva seguito chi sa quale sorte, adunò gli assessori del Comune, più intimi suoi, e con essi tenne consiglio.

      Intervennero: Bortolo Sangiovese, Ardito Popolini, Tragico Arrubinati e Bartolomeo Campana.

      Molto si parlò e molto si discusse, finchè, data la perfetta oscurità nella quale la cosa era ancora avvolta, si decise attendere i primi risultati che avrebbe ottenuto la pubblica sicurezza.

      Ciononostante il mondo repubblicano era messo ad alto rumore e corso dalle voci più disparate. Si parlava di una congiura dei clericali, di una vendetta di Monsignor Rutilante. Solo il nome di Manso Liturgico non comparve poichè, del vero, nulla era ancora palese.

      Fumo e bagliori rossigni esaltarono ed esasperarono i repubblicani i quali, quasi per coscienza continua di sospetto, si rivolsero al campo dei loro nemici, cercando almanaccare e costruire castelli inconsistenti. Gian Battifiore, chiuso nel suo mutismo preferito, non prestò orecchio alle voci maligne e la polizia iniziò l'opera sua.

      Stava Gargiuvîn, una sera, lavorando in compagnia di Plè, il suo vecchio cane dal pelame rossigno e dalla gran testa piagata.

      Su una corniola finiva di tracciare la linea perfetta di un teschio; sua specialità questa poichè non aveva accettato mai di eseguire disegno differente.

      Volgeva il crepuscolo. Si udivan dai sottostanti cortili, stridori di girelle, acciottolii di stoviglie, voci di donne sussurrare e cantare; il cielo si tingeva in rosa su gli alberi lontani ed era violetto su tutto il mareggiare dei tetti.

      Ad un tratto l'anarchico udì bussare con violenza alla porta sì che gridò:

      — Chi è?

      — Aprite! — rispose una voce rude. Gargiuvîn riconobbe il visitatore e si alzò sorridendo. Quand'ebbe dischiuso l'usciuolo grigio, cinque agenti di pubblica sicurezza si precipitarono nel suo stambugio con cipigli feroci ed atti di prudenza gladatoria.

      Poi, il più anziano parlò:

      — Voi siete Armando Ginni detto Gargiuvîn?

      — Sicuro! — rispose l'anarchico levando il capo.

      — Allora seguitemi.

      — Per quale ragione?

      — La saprete.

      — Amo meglio saperla subito! — esclamò l'anarchico volgendo gli occhi a smorfia; ma l'anziano che se ne avvide, disse, rivolto a' suoi:

      — Prendetelo e ammanettatelo!

      Già stavan per compir l'opera, i bravi, allorchè, tendendo le braccia, chiese Gargiuvîn, col suo miglior sorriso:

      — Voglio farvi una preghiera: Posso?

      — Dite, presto! — rispose rudemente l'anziano.

      — Prima di seguirvi — riprese l'anarchico — permettete provveda alla vita di Plè, mio affettuoso fratello.

      Fattosi su le scale poi, chiamò a più riprese:

      — Schignòtt? Schignòtt?

      Una voce cavernosa rispose e, poco dopo, il pezzente si presentò su la porta.

      — Ascolta Schignòtt! — riprese Gargiuvîn: — Io sono invitato da questi signori; forse rimarrò assente qualche giorno. In questo tempo ti affido il mio caro Plè. Abbine cura come fosse una tua pupilla, il tuo cibo prediletto. (Non dico la tua amante perchè sei troppo brutto). Il suo pasto lo sai: quattro ossa al giorno: niente più perchè soffre di gastricismo. Non viziarmelo. Serbalo puro ed amalo!

      Rivoltosi poi alle guardie, disse loro:

      — Eccomi!

      Queste lo presero in mezzo e, cianchettando ed ondulando, l'anarchico si avviò giù per le scale. Su la sua faccia pallida era un indefinibile sorriso di scherno.

      Fra un formicolìo di fanciulli, di donne e di sfaccendati, l'improvvisato corteo giunse al corpo di guardia. Su la porta erano schierati, in due ali, alcuni poliziotti che tenevano a freno i curiosi.

      — Largo! largo! — gridò l'anziano avanzando.

      Fra un sussurio crescente, Gargiuvîn sbucò dalla folla; ma quando fu per entrare ne l'andito, si piantò su le gambe sbilenche, alzò il capo in comico atteggiamento, guardò in viso le guardie e gridò loro:

      — Amici!... Son di ritorno!

      Poi, fra un impeto improvviso di fischi, di urla e di risate, scomparve dietro l'ombra della fiera legione.

       Indice

      Allorquando Gargiuvîn si fu allontanato fra la folla che tumultuava e l'ultima eco delle grida si perse nel consueto silenzio delle piccole vie lontane, Schignòtt aprì l'impannata della breve finestra che dava luce al suo momentaneo rifugio, sogguardò intorno e, assicuratosi che nessuno era in agguato, prese con sè Plè e uscì camminando in fretta rasente ai muri. Dopo aver percorso un laberinto di vicoletti, giunse sotto le mura, alla piccola tana di Don Vitupèri. Raccolse un sasso e battè su l'uscio (nel quale era aperto, verso la base, un piccolo passaggio quadrato per il gatto e le galline) prima tre colpi rapidi, poi tre più a rilento e tre ancora.

      Una voce cavernosa rispose da l'interno:

      — Novità?

      — Apri — disse Schignòtt.


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