Gli Uomini Rossi. Beltramelli Antonio

Gli Uomini Rossi - Beltramelli Antonio


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      Ogni ingiuria creata ed ogni fantasia ingiuriosa che il clima della calda Romagna alimentasse, trovava in detti giornali sua stabile dimora per le ardenti e continue polemiche, nate da minime cause, divampanti in perenni incendii.

      Ardito Popolini, allorchè fu per porre un titolo al suo giornale, frugò fra i suoi ricordi classici, perchè voleva togliersi dalle comuni denominazioni. Rimase incerto così fra i nomi di due eroi della libertà, dei quali conosceva le gesta: Armodio ed Aristogitone. Armodio si prestava troppo ai facili giuochi di parola degli avversarii; la scelta cadde su Aristogitone.

      Quantunque avesse pensato a Vercingetorige, non lo elesse a vessillo, che gli parve troppo barbaro.

      Spiegò a' suoi lettori l'essenza del suo eroe e affisse, su la porta della redazione, un cartello sul quale era stampata la seguente dicitura:

      Redazione dell'ARISTOGITONE (*)

      (*) Aristogitone e Armodio

       antichi greci

       famosi per la loro ardita congiura

       contro gli odiati tiranni Ipparco e Ippia

       figli di

       Pisistrato l'usurpatore

       ogni buon repubblicano onori la memoria

       dei ribelli

      Ciò per chi non sapeva. Naturalmente, Aristogitone divenne popolarissimo tra gli uomini rossi. In tal guisa Ardito Popolini dimostrò la sua coltura e la sua originalità e fu gran colpo per gli avversari.

      Ora frequentava gli uffici del giornale, i quali consistevano in una sola camera a pianterreno, il Cavalier Mostardo.

      Il Cavalier Mostardo aveva quarant'anni.

      Portava il cappello su le ventiquattro, il colletto a pistagna e una grande cravatta rossa; era alto, forte e piacente; gran mangiatore e uomo di piacevoli vendette.

      Il Cavalier Mostardo era un Nume.

      I romagnoli adorano la forza muscolare, e Mostardo aveva dimostrato in varie occasioni di possederne tanta, da far nutrire a' suoi simili savio rispetto per la sua persona. Egli sollevava un uomo di statura media, a braccio teso e con massima disinvoltura; fermava un barroccio trascinato da due mule, afferrandolo per il verricello; faceva divergere le sbarre di un'inferriata, con semplice garbo disinvolto.

      Raccontava che, una volta, entrato in mischia, e trovatosi sprovvisto di armi, afferrò per una gamba uno dei contendenti e se ne fece clava mettendo così in isbaraglio, in pochi minuti, gli uomini inferociti. Un'altra volta, combattendo in Calabria contro il brigantaggio, uccise cinque malfattori di un colpo solo rovesciandoli in un precipizio. E così via.

      Le sue avventure erano eroiche. Egli le raccontava, ridendo del riso solenne dei numi e lo stupore si appalesava negli occhi attoniti degli ascoltatori. Qualcuno aveva fatto un calcolo però: secondo i fatti d'arme ai quali Mostardo raccontava aver preso parte, egli avrebbe raggiunto la rispettabile età di centocinquant'anni; ma siccome l'eroe non amava essere contraddetto, ed aveva sempre qualche ragione convincente, i maligni si guardavan bene dal comunicargli le loro osservazioni.

      Ora il suo nome di battesimo era Giovanni Casadei, nome che indicava la sua origine ignota. Però, per la perfetta concordanza dei tipi, Augusto Regida lo disse discendente da un antico eroe della città; del quale eroe un cronista del quattrocento parlava in questi termini:

      «Cavalier Mostardo, conduttiere et capitano di ventura, homo molto pronto et valoroso. Lo quale si gloriava che nelle battaglie diverse haveva havuto cento ferite nel suo corpo, delle quali mostrava le cicatrici; tanto fu animoso che non istimava pericolo di morte, et a la sua forza non credeva altri fesse resistenza, et più et più volte combattè a corpo a corpo et sempre vinse».

      Giovanni Casadei credette per davvero fosse il Cavalier Mostardo suo antenato, sì che ne assunse il nome e si gloriò della discendenza.

      Negli uffici de l'Aristogitone, il Cavaliere era la seconda persona; la terza era Maraveja, vecchia nutrice di Ardito Popolini. Ella assomigliava ad un arcolaio ed aveva negli occhi tutta la dolcezza stanca delle favole che raccontava a' suoi innumerevoli nipoti. Seduta tutto il giorno su l'uscio della casa di Popolini, faceva certi suoi scacchi componenti una gran coperta matrimoniale destinata forse ad una fra le bionde principesse delle sue fiabe, e si udiva sempre il picchiettio sommesso de' suoi ferri da calza, simile al lento rodere di un tarlo. La casa del suo figlioccio sorgeva in una strada vicina ad una gran torre che segnava il tempo con le sue vecchie campane, fra attimi brevi, quasi ad ogni pulsare di vena: e Maraveja, da lunghi anni, vedeva morire il sole su le alte grondaie rossigne e vedeva passare i fanciulli alle ore consuete. Essi crescevano di anno in anno e la salutavano con varie voci. Ora viveva ella come ombra che si attarda in crepuscoli estivi, solo del ricordo di un giorno.

      — Ah, quando c'erano i tedeschi! — soleva dire. Allora aveva sposato, e, per l'umile creatura, tutta la gioia vissuta era di quel tempo.

      Il Mostardo amava la vecchia ch'egli chiamava Nonna, quasi per antonomasia e l'amavano così tutti gli abitanti del Rione perchè ella sapeva tacere e parlare a tempo.

      Questa, la portinaia del giornale vulcanico nel quale si agitavano i destini di tutta una gente.

      Il Cavalier Mostardo fungeva da cronista ne l'Aristogitone; veramente egli era analfabeta, ma il suo pensiero, passando attraverso la penna del Popolini, nulla perdeva della sua originalità.

      Il còmpito affidatogli di scovare notizie, le quali mettessero la città a rumore, lo disimpegnava a maraviglia.

      Molti scandali si dovevano alla sua perspicacia, al suo intuito da segugio che sapeva scoprire le traccie le quali lo avrebbero tratto a infallibile porto.

      Per tale qualità il Cavalier Mostardo era molto temuto.

      Un giorno, era trascorso forse un mese da l'arresto di Gargiuvîn, il Mostardo, nelle ore del pomeriggio, andò, contro il suo solito, agli uffici de l'Aristogitone.

      A Maraveja ch'era seduta nella sua eterna posa, sugli scalini della porta, chiese:

      — C'è Ardito?

      La vecchia, senza alzare il capo dal lavoro, rispose come sempre:

      — Sì donnino mio!

      Il Cavaliere spinse l'uscio ed entrò.

      Ardito Popolini scriveva ad un gran tavolo posto in fondo alla stanza; allorchè vide l'amico, emise una specie di saluto gutturale e riabbassò subito gli occhi su le cartelle che riempiva di fitta calligrafia a zampe di mosca.

      Il Cavalier Mostardo a quell'ora, era sempre un po' alticcio nè meritava il tempo e la fiducia di chi è spinto da continua fretta sul suo fatale andare.

      Mostardo si piantò in mezzo alla stanza. Aveva gli occhi un po' lucidi, il viso era vermiglio come il vessillo del suo partito; i baffi diritti e il cappello da parte accrescevano l'aria piacevolmente spavalda.

      Si dondolò su la persona con le mani strette dietro le reni e il petto un po' innanzi; guardò con insistenza l'amico suo, con un sorrisetto furbo, come per dire: — Tu non immagini neppure ciò che sto per rivelarti! — poi tossì leggermente. Attese qualche secondo e visto che l'amichevole richiamo non serviva a distogliere Popolini dalle sue profonde elucubrazioni, abbassò il capo, quasi a riordinar le idee, ed esclamò con voce profonda:

      — Io ho un'amante!

      Rialzò gli occhi. L'altro continuava imperturbabile il suo lavoro.

      Allora fece un passo innanzi e a voce più alta riprese:

      — Io ho un'amante!

      — Lo so! — disse Ardito e gonfiò le gote per l'impazienza.

      — Ascolta — continuò il Cavalier Mostardo, col suo risolino arguto — la mia donna si chiama.....

      E il Popolini, scattando:

      — Ermelinda Melisari, abita in via Pelle di leone, numero 34, piano


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