La donna fiorentina del buon tempo antico. Isidoro Del Lungo
nel nome di qualsiasi delle suore volevano innanzi consigliarsene col padre e con gli altri della casa: eccezione dagli scrutatori respinta come disonesta e contro diritto, e a noi evidente esser suggerita da rispetti e legami di parte, i quali avvincevano dunque anche le donne, e quelle stesse che ogni vincolo mondano avevano professato d'infrangere.[70]
Alle donne fiorentine di cotesti anni, mordendone con parole acerbissime i disordinati costumi, minaccia Dante,[71] per bocca dello spirito d'uno dei Donati, che i peccati di Firenze attireranno anche su di esse la meritata punizione del cielo: avanti che siano adulti i pargoletti i quali ora fanno la nanna sulle loro ginocchia, Dio le farà triste, e avranno a «urlare» sui mali delle loro famiglie e della loro città. Allusione indubitabile, ragguagliando le date, — o alla rotta dei Guelfi sotto Montecatini, nel 1315, della quale un rimatore contemporaneo[72] cantava:
Non vi ricorda di Montecatini,
come le mogli e le madri dolenti
fan vedovaggio per li Ghibellini,
e' babbi e' fratri e' figliuoli e' parenti?
— o piuttosto alle vendette imperiali che nel 1312 Dante con gli altri Bianchi sperò e invocò da Arrigo VII sui Guelfi Neri.[73] È, a ogni modo, notevole in relazione col nostro tema, che anche per Dante, come per gli altri grandi interpetri dell'ideale umano, un disastro di guerra, un civile rovescio, si concretino, nella loro più dolorosa forma, in lutto e pianto di donne. Così presso Omero, le matrone troiane guidate da Ecuba veneranda sollevano con alti pianti le mani a Minerva; e nella morte di Ettore, ai lamenti della moglie e della madre e di Elena fatale, rispondono i gemiti di tutto il popolo; e nella caduta della città, sente, fra il crosciar delle armi e degl'incendî, il disperato gridar delle donne la pietosa anima di Virgilio;[74] a tenore delle cui imagini, nell'assalto di Rodomonte a Parigi,[75]
sonar per gli alti e spazïosi tetti
s'odono gridi e feminil lamenti:
le afflitte donne, percotendo i petti,
corron per casa pallide e dolenti,
e abbraccian gli usci e i genïali letti
che tosto hanno a lasciare a estranie genti....
Nell'Omero fiorentino del medio evo la figurazione è meno plastica, ma forse più potente; e la satira mesce nell'epica intonazione la sua stridula nota:
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che il ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
chè, se l'antiveder qui non m'inganna,
prima fian triste, che le guance impeli
colui che mo' si consola con nanna.[76]
Se non che gli spiriti, al cui vaticinio confidava Dante i rammarichi e le ire dell'ingiusto esilio, non antividero che quella esaltazione di guelfismo, nella quale i Neri avevano trascinato il Comune, e da cui i più onesti e temperati fra i Guelfi, come esso l'Alighieri, avevano rifuggito, anche a costo di perder la patria; doveva ormai' quella esaltazione guelfa, rimanere durevol forma del concetto politico a cui avrebbe seguitato a ispirarsi, pe' suoi settant'anni di secolo XIV, il Comune democratico, e in quella la perpetua «inferma» dell'Alighieri «trovar posa in sulle piume» del letto suo doloroso.[77] Così fu; nè qui accade discorrerne le varie e molteplici cagioni: fatto sta, che la storia fiorentina del Trecento, nel cui ultimo scorcio l'oligarchia prevalse, non offrì quelle fortunose vicende di reggimenti e di fazioni, di disfatte e di esilî, di vincitori e di vinti, per le quali la continua mutabilità dello stato rese alla donna così procelloso e malfido il porto della famiglia durante il secolo XIII: dagli esodi alternati di Ghibellini e Guelfi fra il 48 e il 67, all'ostracismo di Giano della Bella nel 95 sbandeggiato co' suoi compresavi la figliuola Caterina;[78] dai disfacimenti vandalici di mezza la città sotto il piccone de' Ghibellini,[79] alle sillane proscrizioni bandite dai Guelfi Neri contro i loro stessi compagni di Parte condannati a divenire «ghibellini per forza».[80] Gli uomini del Trecento raccolsero da que' feroci contrasti la tradizione democratica artigiana, che atteggiò la vita interna del Comune a una progressiva espansione verso la plebe; espansione inefficacemente combattuta dalle Arti maggiori, e che fece capo al governo de' Ciompi: — ne raccolsero la tradizione guelfa francese, che in quello stesso secolo finì con l'attirare sulla libera città l'abietta e sconcia tirannide del Duca d'Atene, e dispose incorreggibilmente la Repubblica a una parzialità lusinghevole e pericolosa, i cui estremi danni sentì Firenze nel 1530, quando a ripararli non si era più a tempo: — ne raccolsero infine la sola forma di magistrato fiorentino che abbia avuta durata ferma, i Priori e il Gonfalonier di Giustizia, la cui insegna popolare piantata da Giano della Bella, trasmessa dall'una all'altra di quelle mani gagliarde, fu, dopo quasi due secoli e mezzo, il vessillo della patria nelle ultime battaglie della libertà.
V.
Il Trecento, adunque, è nella storia di Firenze, comparativamente all'età che lo precede, secolo di confermamento e di stabilità. «Nuovo popolo», come dicevano, non si fa più. Non mancano le grandi commozioni, i grandi pericoli, i grandi rovesci eziandio: la città è assediata da Arrigo VII; minacciata da Uguccione, e più gravemente da Castruccio; stremata del suo miglior sangue nelle battaglie di Montecatini e dell'Altopascio; le calate imperiali del Bavaro, di Carlo IV, mettono alla prova il senno e la borsa de' suoi mercatanti; questa è munta gagliardamente dai sovrani quasi di tutta Europa; i reali di Francia e di Napoli vengono a spadroneggiarci in casa; un loro venturiero crede di essercisi insediato signore e duca; la travagliano, con le armi e con le cupidigie, Scaligeri e Visconti, i Papi Avignonesi e le Compagnie di ventura; le epidemie, ed una sopra tutte spaventevole, la disertano; la tirannide guelfa turba l'equilibrio delle Arti, e provoca gli eccessi della demagogia: ma lo Stato rimane pur sempre saldo a tutti questi urti, fra tutte queste burrasche; saldo tanto, che il rivolgimento verso l'oligarchia si compie senza mutazioni, nè di forma nei magistrati, nè di sostanza nella politica del Comune. E così può Firenze, durante questa età gloriosa, svolgere nelle forme più ampie e sino a' più alti gradi la civiltà sviluppatasi faticosamente dalle tenebre dei bassi tempi; d'industrie e commerci alimentarla, afforzarla, propagarla nel mondo; farle ministre le arti del bello figurato, che Arnolfo, Giotto e l'Orcagna, maestri e operai del Comune, improntano di quella gentil compostezza che d'ora innanzi si chiamerà toscana; ai dispersi elementi dell'eloquio latino, che di regione in regione italica vennero atteggiandosi a lingua di popolo, dare Firenze la forma, farne il verbo della nazione, anzi già il valido istrumento d'una letteratura, che, intorno a un altro grande triunvirato fiorentino, si afferma italiana.
Di questa vita, tanto più spirituale e civile quanto meno agitata e procellosa, la donna, resa quasi ad aere più spirabile, partecipa, com'è naturale, e ne gode largamente. Nella istoria di lei, il dramma fa luogo alle contingenze, or liete or tristi, del familiare e cittadino consorzio; è finalmente ai tesori della bellezza e della tenerezza sua, ispiratrici, ricomposto il nido domestico, com'era a tempo delle avole buone, ma ora la ricchezza e l'arte gareggiano in adornarlo: e i mercatanti di Calimala e di Por Santa Maria, quasi a consolarla de' lunghi abbandoni, serbano a lei le primizie de' panni che recarono d'oltremonte, e che trasformati e triplicati di pregio rivarcheranno le alpi ed il mare.
Ed ella non sarebbe donna, se di quella ricchezza, di quelle appariscenze, che son poi infine lieto testimonio della forza e della prosperità del Comune, la non si compiacesse, e non se ne circondasse volenterosa. Ed hanno un bel gridare i religiosi dal pergamo; e Dante anche questa voce del tempo suo (e quale gliene sfugge?) ha raccolta; hanno un bell'ammonire e minacciare e interdire, e aggiungere le «spiritali» alle altre «discipline»,[81] che correggono e frenano i mondani splendori e il trascorrere nelle pompe e nel lusso.... Ma sono così belli, sotto il raggio meridiano del sole di primavera o ne' rosei tramonti autunnali, quelli svariati colori, quegli arienti, quell'oro, su quelle teste bionde, intorno a que' candidi colli, a prova con lo scintillare di que' neri occhi pensosi! paion fatti