Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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bene, signorina, se proprio crede che la salute di sua madre ne soffra…».

      La donna gli aprì la porta e, mentre usciva, gli sussurrò: «Lei conti su me! Ma deve mantenere la sua promessa!».

      «L’avvertirò. Grazie…».

      E scese le scale in fretta. Al passaggio vide, dietro i vetri della porta, il volto della portinaia, che spiava.

      Uscì in istrada. Camminava assorto. Adesso gli sembrava che nel suo spirito le impressioni ricevute si precisassero. Si avvicinava alla spiegazione del mistero. Neppur lui, però, avrebbe saputo dire perché lo credesse. Era una sensazione indistinta, che gli veniva dal suo subconscio. Quale rapporto vi fosse tra quelle due donne e la morte del senatore e soprattutto quale legame invisibile tra esse e l’assassino non sapeva. Certo, non un legame d’interesse. Piuttosto uno di quei fili misteriosi, ignoti a coloro stessi che ne sono avvinti. Un’onda eterea, priva di calore, priva di luce.

      I tranvai passavano davanti a lui, senza fermarsi, colmi, stipati di gente. Impiegati, commesse, dattilografe.

      Scese corso Italia lentamente, a piedi. A casa, Antonietta l’aspettava, fremendo, per la colazione, che lui faceva freddare come il solito. Le avrebbe telefonato che non andava. Quando fu davanti al telefono di una tabaccheria, chiamò San Fedele, invece di casa sua. Si fece dare Sani.

      «Novità?».

      «Ho fatto quanto t’interessava. Alle due, l’autista sarà qui…».

      «Grazie. Nient’altro?».

      «Il dottor Verga sono tre giorni che non va in viale Bianca Maria…».

      «E l’infer… e quella signorina americana?».

      «Quella sì. È lei che manda avanti l’ambulatorio. Naturalmente, i clienti sono quasi tutti scomparsi, adesso che il professore non c’è più».

      «Manda Cruni a casa di Verga, in via Leopardi. Che me lo conduca in Questura nel pomeriggio…».

      «Va bene…».

      «Grazie… Ah! Senti! Per favore, telefona tu a casa mia. Di’ ad Antonietta che non vado a colazione. Se telefono io, mi fa la paternale!».

      «Chiamo subito. Le dirò che tu mangi col Questore…».

      «Fa’ come vuoi. Ma la storia del Questore Antonietta la conosce già!… Ciao!».

      Uscì dalla tabaccheria e scese da piazza Missori per via Carlo Alberto.

      In piazza del Duomo vide che era la una. Lui aveva abitudini modeste; ma, quasi senza rendersene conto, imboccò la Galleria ed entrò al Biffi. Sedette nell’ultima sala, dove c’era meno gente. Ordinò quel che volle il cameriere. «Vino?».

      «Acqua minerale».

      Il cameriere s’allontanò.

      «Astemio, commissario? Eppure un po’ d’alcool fa bene!».

      Si voltò di scatto. Al tavolo accanto al suo c’era il dottor Marini, che gli sorrideva, esuberante di gaiezza e di cordialità espansiva.

      «Io bevo birra!…».

      «Fa sempre colazione qui, lei?».

      «Io? No. Ma ho mandato mia moglie in campagna. È sofferente. E allora, per non digiunare, mangio dove mi trovo…».

      «Ah! Sua moglie è ammalata?».

      «Sofferente soltanto. Mali di donne. Si cambia aria e passano».

      «Non ha figli, lei?».

      «No».

      Il cameriere serviva De Vincenzi.

      «Virgilio, il signore è mio amico. Porta via quell’intingolo e dagli il piatto del giorno… Dia retta a me, commissario! Quando viene qui dentro, ordini sempre il piatto del giorno».

      Virgilio, interdetto, era rimasto a guardar De Vincenzi. Questi gli tolse il piatto dalle mani e se lo mise davanti.

      «Sarà per un’altra volta. Stamane, ho fretta».

      Marini disapprovò col capo. Poi, come a un’idea improvvisa, si chinò verso la tavola vicina e chiese, abbassando la voce: «C’è qualcosa di nuovo?». «Forse…».

      «È vero quel che si dice di un arresto?». «È vero».

      «Ha trovato la strada buona, dunque?». «Spero…».

      De Vincenzi era laconico; ma senza scortesia. Anzi, sembrava disposto alle indiscrezioni.

      Il dottore aveva terminato di mangiare la sua macedonia di frutta. Bevve il maraschino ch’era rimasto nella coppa, si asciugò la bocca e si alzò. «Permette?».

      Aveva preso una seggiola e si teneva davanti al tavolo del commissario. «S’accomodi».

      «Sa? Non è curiosità la mia. Ma l’idea che Ugo, non sarebbe stato vendicato mi torturava!». «E quell’altra?» scandì De Vincenzi, guardandolo. «Quell’altra?». «La cameriera… Norina…».

      «Sì, naturalmente. Una cosa orribile! Ma Ugo era mio amico. Ci volevamo bene».

      «Lo sa che l’autopsia ha constatato che quella ragazza era incinta, quando è morta?». «Oh!».

      Aveva impallidito. Per qualche minuto non trovò la forza di parlare.

      De Vincenzi mangiava e l’osservava, senza parere.

      In quella sala erano rimasti loro due soli. Il cameriere cambiava il piatto, metteva sulla tavola il canestro della frutta.

      «Vuole il caffè?».

      «Sì».

      «Liquori?».

      «No».

      Passò il sigaraio. Offrì il Corriere del pomeriggio.

      Finalmente, furono soli di nuovo.

      «È mostruoso!» mormorò il dottore. «Che fosse incinta oppure che l’assassino l’abbia Strangolata e gettata nella Darsena?…».

      «Ma allora…» e s’interruppe.

      «Allora, che cosa?».

      «Anche lei, come le altre, lo amava!».

      «Pare!».

      «Siete sicuri che non è stato un suicidio? Tutto si spiegherebbe!».

      «Meno il fatto che quella disgraziata si sia strangolata da sé, stringendosi così forte alla gola da schiacciarsi le vene giugulari!».

      Seguì un altro silenzio.

      «E l’arrestato?».

      «Un vecchio ladro, che sembra si sia tradito, cercando di vendere il cappello del morto e il mantello della ragazza…».

      «Imbecille!».

      «Infatti…».

      «E come lo avete scoperto?».

      «Ah!» fece De Vincenzi, sorridendo. «Io non ci ho proprio merito. E neppure la Polizia. Lo ha scovato un uomo di Harrington».

      «Il detective privato?».

      «Già».

      «Quello che fece arrestare i ladri del gioielliere di via Santa Margherita?».

      «Proprio!» esclamò il commissario e si chinò in fretta a raccogliere il tovagliolo, che gli era caduto. Per qualche istante rimase col volto sotto la tavola.

      Quando si sollevò, bevve il caffè in fretta e chiamò il cameriere per pagare il conto.

      «Se permette, faccio fare tutt’uno col mio. L’altra notte pagò lei le consumazioni al caffè».

      «Non


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