Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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dopo l’altro, leggendone i titoli, facendoseli girare fra le mani, osservandoli attentamente. Si sarebbe detto che stesse per chiederne il prezzo.

      «Qualcosa di nuovo, signor commissario?».

      Chirico gli aveva parlato a voce bassa, ma, subito gli altri rattennero il respiro, attendendo la risposta. I due clienti dovevano sapere o intuire chi egli fosse e non si erano fatti ingannare da quel suo cercare fra i libri.

      «Di nuovo?» ripeté lui, quasi non avesse compreso la domanda. «Ah! sì… Può darsi… Tutto è finito».

      «Come?!».

      Anche Gualmo, non contenendosi più, gli si avvicinò, col suo passo cauto e silenzioso, la testa in avanti, gli occhi spalancati e fissi.

      L’uomo barbuto depose l’opuscolo e si tolse gli occhiali.

      «Già! Qualcuno è stato arrestato. Lo saprete a suo tempo».

      «Ma chi è l’assassino? E perché è venuto proprio nel mio negozio?».

      «Come ha fatto a entrare?» proferì Pietrosanto, a cui quell’enigma era rimasto immanente nello spirito. «E lei ha ritrovato il libro rubato?».

      De Vincenzi represse un sussulto.

      Già! C’era il libro. «La Zaffetta — Venetia 1531 — in 8°». L’aveva quasi dimenticato e certamente non ne aveva tenuto conto nel suo puzzle. Eppure era un elemento capitale. Adesso, che aveva respirato il profumo dell’appartamento di via Abbondio Sangiorgio, anche il libro pornografico, pubblicato per vendetta contro una cortigiana, assumeva ai suoi occhi un significato netto e preciso, si rivelava nel dorso e nella costa, come tutti quei libri che giacevano di là, quando la luce veniva accesa dentro le tetre stanzucce del retrobottega.

      «Il libro! Già! Ritroveremo anche quello. Mi faccia vedere il posto preciso dal quale è stato tolto».

      E si diresse verso il corridoio, preceduto da Gualmo e seguito da Chirico.

      I due clienti osservavano e, se il padrone non avesse chiuso la porta dietro di sé, lasciandoli nel negozio, li avrebbero seguiti.

      Chirico aveva chiuso la porta per un movimento istintivo; ma appena ebbe raggiunto Pietrosanto, che stava indicando al commissario la scansia degli «erotici», lo prese per un braccio e lo spinse verso il corridoio: «Vada di là, lei! Quei due sono rimasti soli…».

      Pietrosanto si agitò tutto a quella ingiunzione, che feriva nel profondo la sua curiosità. Ma dovette ubbidire. La diffidenza sospettosa del padrone era legge, che egli non poteva contrastare.

      De Vincenzi si guardava attorno. Il cadavere non c’era più naturalmente; ma lui lo vedeva sempre davanti a sé, disteso a terra. Soltanto, adesso, aveva per lui un volto non più di ghiaccio, immobile, ma animato. Lo vedeva vivere, quel cadavere, quando entrava nell’appartamento clandestino, quando sedeva sul divano di velluto nero e si avvicinava al bar di palissandro, con tutte le fiammelle dei liquori. Lo aveva dinanzi agli occhi, vivo! E viva era anche la donna del ritratto, per quanto lui non l’avesse conosciuta mai.

      Che parte aveva avuta quella donna nel delitto?

      Forse, nessuna. Forse, la parte principale.

      Come mai pensò anche alla vedova in gramaglie e gli sembrò vederla risalire via Dante, per entrare nell’Agenzia di Harrington?

      «Avete tenuto qualche altra seduta spiritica in questi giorni?».

      «No!» esclamò l’ometto.

      «Perché?».

      «Oh! Non sempre si tengono, le sedute… I soci vanno a periodi… Il Circolo serve più di ritrovo per discussioni, lettura delle riviste e dei libri, che altro».

      «Oppure lei mi nasconde la vera ragione?».

      Chirico si tolse il cappello, si passò una mano sulla testa rasa, dai capelli corti, duri come i peli d’una spazzola.

      «Quale?».

      «La profezia della medium…».

      «Naturalmente, son cose che impressionano…».

      «Sa che ho parlato di nuovo con la signora Sorbelli?».

      «Ah!».

      «Mi ha promesso di tenere una seduta per me. Mi interesso di spiritismo, adesso… Forse, è stato lei a indurmici, convincendomi che attorno a noi vive tutto un mondo, che non conosciamo…».

      Chirico lo guardava con diffidenza. Che si facesse giuoco di lui non lo pensava; sentiva invece che aveva un progetto ben definito, uno scopo da raggiungere.

      Dove voleva arrivare?

      «È un temperamento sensibilissimo, quella signora… Troppo, persino!».

      «Desidero che partecipi anche lei, signor Chirico, alla seduta…».

      Gli si avvicinò. Gli mise una mano sulla spalla.

      «Potremo tenerla nella sede del Circolo!».

      «Dipende dal Presidente…».

      «O dal segretario? Il segretario è lei! Bisogna farla in quel luogo, signor Chirico. È indispensabile».

      «Quando?» mormorò l’ometto, oramai convinto che non gli sarebbe stato possibile sottrarsi. Furbo come era, capiva che De Vincenzi era venuto da lui, soltanto per parlargli di quella seduta. Ma che cosa aveva nella mente? Quale tranello voleva tendere a lui o ad altri?

      «Glielo farò sapere domani. Forse, dovremo tenerla domani sera. Certo, prima di lunedì…».

      «Domani è domenica».

      «Oh! Le telefonerei a casa… Ma potremo anche fissare la seduta per lunedì alle nove… Lunedì notte fanno gli otto giorni che il senatore Magni è stato ucciso».

      Chirico ebbe un fremito e fissò il commissario con terrore.

      «Che vuol fare?».

      «Nulla!».

      «Verrà davvero la signora Sorbelli?».

      «Certamente!».

      «Oh! No!».

      «Sicuro! Ma lei crede proprio che i morti tornino?».

      L’altro era livido e non rispose.

      De Vincenzi si mise a osservare il posto di dove era stato tolto il volume rubato. Se avesse potuto vedere la mano, che si era protesa a prenderlo! Ma lui la vedeva quella mano, bianca, affusolata, vibrante, la mano di un uomo nervoso e sensibile, perché era convinto che doveva essere stato il senatore a togliere quel volume dal suo posto! Ma da che cosa derivasse in lui quella convinzione non avrebbe saputo dire.

      Tornarono in negozio. I due clienti non si erano mossi. Gualmo scrutò il commissario. Poi vide il pallore cadaverico di Chirico e gli occhi gli si allargarono ancora di più.

      «Inviteremo anche il signor Pietrosanto!» disse, senza sorridere, De Vincenzi. «Siamo intesi».

      «Invitar me? A che cosa? Dove?».

      «Lo saprà lunedì».

      E uscì dal negozio, ripetendo a Chirico: «Siamo intesi, eh?».

      L’ometto gli corse dietro, lo raggiunse sul marciapiede e dovette afferrarlo per un lembo del soprabito, perché si fermasse e gli desse ascolto.

      «Chi altro parteciperà alla seduta?».

      «Glielo farò sapere lunedì. Agli inviti penserò io».

      «Ah!» riuscì a proferire il pover uomo e se ne tornò in negozio con un peso sulle spalle, che lo schiacciava.

      De Vincenzi prese un tassi in piazza del Verziere, proprio a quel posteggio dove la notte di martedì, quattro giorni prima s’era separato dal dottor Marini, dopo aver passeggiato


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