Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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e si avviò.

      «Entri nel parco, sa? La villa si trova nell’interno… Domandi al custode».

      Il parco era immenso. In fondo, tra gli alberi, si vedeva un grande caseggiato bianco, con le finestre verdi. Una villa principesca. Possibile, che la moglie del dottore abitasse lì dentro?

      «Ah! Quella signora milanese, che è arrivata da due giorni con la cameriera! Hanno preso in affitto il padiglione interno… Deve salire… Passi accosto alla villa principale… troverà un sentiero… E poi non può sbagliare, perché il padiglione sta a mezza costa e lo vedrà subito dal basso».

      Era il vecchio padiglione da caccia della villa dei Doria. Lo vide, infatti, a due piani, dipinto in rosso mattone, con davanti un giardino a terrazza.

      A mano a mano che saliva, lui lo distingueva sempre più chiaramente, senza essere a sua volta veduto dall’alto, perché il sentiero saliva incassato fra due siepi, tutto buche e franamenti.

      Le finestre della facciata erano spalancate. Il sole sommergeva la casa.

      Sulla ringhiera di un balcone, vide il bianco delle lenzuola e le coperte di un letto appena disfatto.

      Quando fu proprio sotto la terrazza, mentre continuava a salire, poté dare un’occhiata al giardino, attraverso le sbarre della balconata di ferro, che lo circondava. E scorse una donna in vestaglia azzurra, distesa sopra una seggiola a sdraio, col viso rivolto verso il mare. Fu una visione rapida, di cui trattenne nella memoria due piedini nudi, che si agitavano dentro le babbucce, e una massa di capelli biondi rovesciata contro la spalliera.

      Si trovò in un ripiano, su cui si mostrava la facciata laterale del padiglione con una piccola porta rialzata da tre gradini e alla sinistra, in angolo, il cancello della terrazza fiorita.

      Si fermò, esitante. Doveva suonare alla porta o varcare il cancello, che era semiaperto?

      Si decise e lo spinse, avanzando sul vialetto ghiaiato, tra la facciata principale e un’aiuola di rose.

      La donna si trovava proprio al limite della terrazza–giardino, davanti alla ringhiera e gli voltava le spalle. Vide di nuovo il gran fulgore dei capelli dorati, che il sole incendiava.

      Davanti, in lontananza, oltre il paese e la spiaggia, la distesa marina.

      Cercò di fare il maggior rumore possibile, strisciando coi piedi sulla ghiaia.

      «Chi è?» pronunciò stancamente una voce dolce, leggermente trepida, ma la donna non si volse.

      «Mi perdoni…» disse De Vincenzi.

      «Chi è?» ripeté la voce.

      «La signora Marini?».

      «Sono io. Avanti… Venga avanti…».

      S’era voltata e lo guardava con indifferenza.

      Non si era ingannato! La donna del ritratto gli stava dinanzi. Più bella della fotografia, il suo sguardo appariva leggermente atono, quasi smarrito. Doveva aver pianto di recente, perché aveva ancora gli occhi umidi, dolci, come macerati dalle lacrime.

      «Che vuole?».

      De Vincenzi sentì che non avrebbe mai osato dire a quella donna chi egli fosse e quale compito avesse. Il solo annunzio della sua qualità l’avrebbe fatta crollare. Ne era certo. Doveva mentire. Tutta una storia da inventare in dieci secondi. Non aveva altro modo, se non voleva che il tentativo fallisse.

      «Mi deve perdonare, signora!… Vengo da Milano… Debbo parlarle… Sono… cioè ero un amico del povero senatore Magni…».

      La donna balzò in piedi. Gli occhi le si fecero duri, foschi. Un leggero fremito la percosse visibilmente.

      Le labbra le apparvero esangui sul volto trascolorato e lei le agitò per parlare, ma non ne uscì suono.

      «Si calmi, signora. Sono un amico».

      La donna sedette di nuovo, ma senza più distendersi. Di fianco alla sua poltrona si trovava un seggiolino portatile di tela e con la mano lei lo indicò a De Vincenzi, che vi sedette, mormorando: «Grazie!».

      Seguì un lungo silenzio.

      Il mare, davanti, sembrava una immensa lastra d’acciaio splendente.

      Subito ai piedi della terrazza, che strapiombava d’una ventina di metri, si stendevano i pini della villa; gran di pini mediterranei, che al sommo dell’altissimo tronco s’aprivano a ombrella.

      Un’immobilità quasi magica teneva tutte le cose.

      Dietro di essi, la villa era silenziosa.

      «Perché è venuto?» mormorò finalmente la donna, senza guardarlo.

      «Sì… perché sono venuto?… E molto difficile a dirsi… Ero un amico di Magni… Sono stato a scuola e poi all’Università con lui e con suo marito… Col dottor Marini ci siamo perduti di vista… Non c’era amicizia tra noi… Ma con Ugo, no. Ugo mi confidava tutto. Ricorreva a me, in ogni caso difficile o soltanto fastidioso. Non aveva segreti per me».

      La donna lo fissò. Ritrovava un po’ della sua forza. Il pallore del volto diminuiva.

      «Che cosa vuol dire?».

      «Ch’egli mi aveva condotto nell’appartamento di via Abbondio Sangiorgio…».

      «Perché viene da me?».

      Gli occhi le sfavillavano.

      «Perché l’ho ritenuto mio dovere, doloroso, amaro; ma insfuggibile…».

      Esitò.

      «Continui!» ordinò lei.

      «In quell’appartamento c’è un ritratto… Se qualcuno non lo toglie a tempo, cadrà nelle mani della vedova…».

      «Che m’importa?».

      Disse la frase d’impeto, con profonda sincerità. Sembrava che nulla più avesse valore per lei! Tanto, dunque, l’aveva amato? Soltanto quello era il suo dramma?

      «Anche suo marito, presto o tardi, può vedere quel ritratto. Dati i rapporti di amicizia, che aveva col povero morto, egli certamente assisterà la vedova nelle pratiche per l’eredità…».

      La donna non rispose; ma il volto di lei espresse un profondo sdegno, quasi una sfida sarcastica.

      «Questo è tutto quel che lei ha da dirmi?».

      «E lei? Io ero venuto a mettermi a sua disposizione! Ho pensato che ella potesse aver bisogno di un confidente sicuro e devoto…».

      «Le ho detto che non m’importa! Il passato si è chiuso così tragicamente, per me, che tutto quanto può accadere non ha importanza. Mi dispiace che si sia incomodato a venire fin qui».

      «E se le dicessi che l’ho fatto anche per un’altra ragione?».

      «Quale?» la voce era tornata dura, tagliente.

      «Per proporle di allearsi a me, in un’opera che io ritengo doverosa, come un debito sacro da assolvere… Vendicare Magni!».

      La donna tornò ad alzarsi, forse per celare il turbamento. De Vincenzi la imitò. Lei lo guardava negli occhi. Se anche le parole di lui l’avevano turbata, adesso si era rimessa.

      «Come vuole vendicarlo?».

      «Cooperando con le autorità a scoprire l’assassino».

      «Come potrebbe farlo, lei? E come io potrei aiutarla?».

      «Lei, signora, deve saper tutto di Magni… Assai più di me, certamente. Forse, può fornire un indizio capi tale. Egli può… deve essersi confidato a lei… Averle detto se aveva nemici… se li temeva… se ha sentito avvicinarsi il pericolo».

      La donna scosse la testa.

      «Non


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