Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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amabile e quello doveva essere il suo più bel sorriso; ma aveva impallidito come impallidiscono i bruni, facendosi cinereo.

      — Dottor Ugo Piermattei… Sono segretario dell’Alleanza e presidente del «Cenacolo»… Il «Cenacolo» è un circolo di coltura…

      — Lo so. Mi dica piuttosto chi ha sorvegliato la piazza e la Loggia questa notte…

      — I vigili notturni… Ho telefonato io stesso ieri mattina al comandante del Corpo di Vigilanza, perché provvedesse al servizio…

      — Grazie. Non m’occorre altro.

      E fece per andarsene, ma non se ne andò invece e, tornato verso il banco, chiese, fissando negli occhi il segretario dell’Alleanza:

      — Aveva avuto occasione di conoscere Giobbe Tuama, lei?

      — Tu… ama? – compitò l’altro, affettando meraviglia.

      — Giobbe Tuama. L’uomo che hanno assassinato.

      — Oh! no, davvero!… Le pare?… Non credo. Sono tante le persone con cui ho rapporti più o meno effimeri… Può darsi che anche lui si sia rivolto a me, in questa occasione della Fiera… Ma conosciuto? No, certo…

      De Vincenzi ebbe l’esatta sensazione che mentiva. Forse, era anche lui una vittima dello strozzino e adesso cercava di tener nascosto quei suoi rapporti, che dovevano essere stati tutt’altro che effimeri.

      — Sicché lei non può darmi alcuna informazione sul conto del morto?

      — No… Le pare?

      Aveva l’accento scandolezzato. Quasi faceva l’offeso. Tanto più era evidente, quindi, che egli conosceva il mestiere del morto.

      Due o tre persone s’erano avvicinate al banco. Una di esse era il giovanotto col monocolo, che aveva richiamato per primo l’attenzione di De Vincenzi.

      — Questa Fiera si svolge sotto il segno della morte e della resurrezione. Che ne dici, Piermattei? Mortem moriendo destruxit. La morte di quel vecchio ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molta gente. Non vedi quanti risorti, attorno a quel cadavere?…

      Il dottor Piermattei si morse le labbra.

      — Uhm!… – balbettò. – Stavo dicendo appunto al commissario che io non conoscevo quel… Giobbe Tuama…

      Il giovanotto si volse di colpo verso De Vincenzi.

      — Ah! lei è il commissario, che si occupa dell’inchiesta? Permette?… Io sono Maurizio Venanzi Jacobini… Se vuole informazioni sul conto di Giobbe Tuama, si rivolga a me. Posso dargliene quante ne vuole.

      — Lo conosceva bene lei, eh?…

      — Purtroppo, sì. E molti qui, attorno a noi, lo conoscevano quanto me… Non creda! Soltanto, non lo confesseranno mai, perché ne hanno vergogna… Non è vero, Piermattei?

      Il segretario dell’Alleanza, che era anche presidente del «Cenacolo» – un circolo di coltura con un tal nome leonardesco per insegna!, pensava De Vincenzi – affettò un’aria maledettamente annoiata.

      — Se t’ho detto che non lo conoscevo! Non so nulla di lui!…

      — Già! Tu non lo conoscevi… – riprese il loquace giovanotto, con quella sua smorfia, che questa volta da cinica s’era smorzata in comicamente ironica. – Che vuole, commissario? Io ho il coraggio delle mie azioni. Non è colpa mia, se le commedie e i romanzi non mi danno tanto da farmi vivere! Il pubblico fischia le prime e non compera i secondi. Che cosa posso farci? Non so far altro, io! E del resto ho la profonda convinzione che sia il pubblico ad aver torto… Così ho dovuto ricorrere parecchie volte a quell’irlandese della malora. Il vecchio il danaro lo dava. Cento lire e ne rivoleva duecento… A me ne ha date seimila e ha in mano… voglio dire, aveva, perché credo che all’inferno dove è andato non abbia potuto portarsele, più di diecimila lire di cambiali… Ecco!

      Alzò le spalle, si tolse il monocolo e lo pulì col fazzoletto di seta, che sfilò dal taschino del petto. Gli occhi miopi apparvero spenti e lui guardò De Vincenzi, socchiudendo le palpebre. Il volto aveva cambiato espressione; si sarebbe detto che si fosse spogliato, mostrandosi nudo, e appariva stranamente infantile.

      — Se non glielo avessi detto io, caro commissario, lei lo avrebbe saputo ugualmente! Immagino che nel lurido antro in cui Giobbe Tuama viveva sieno rimaste tutte le cambiali, che aveva in suo possesso… Sarà facile trovarle!

      — Dove abitava, Giobbe Tuama? – chiese De Vincenzi.

      — In via Bramante. Il numero non lo ricordo. Ci sono andato tante volte, che non avevo più bisogno di guardarlo… È la terza o quarta casa, a sinistra, dal Piazzale Lega Lombarda…

      — Bene. La ringrazio. Venga da me oggi nel pomeriggio, signor…

      — Maurizio Venanzi Jacobini… Vedo che la mia fama non è giunta fino a lei, commissario!

      De Vincenzi rise. Era simpatico, dopo tutto, nonostante quel suo cinismo di maniera, che doveva essere una vernice, una posa e null’altro.

      — Sì… Venga da me, alla Squadra Mobile. Commissario De Vincenzi.

      — Ah! lei è De Vincenzi! Il suo nome, invece, io lo conosco benissimo… Ci verrò certo… e sono felice di averla conosciuta…

      De Vincenzi non lo lasciò finire e si allontanò. Quando stava per scendere la scaletta della Loggia, verso via Mercanti, si voltò e vide il dottor Piermattei parlare concitatamente col loquace Venanzi. Evidentemente, gli rimproverava le sue compromettenti indiscrezioni.

      Il commissario si diresse a San Fedele. Quelle due ore gli erano state utili. Un primo passo verso la conoscenza della figura dell’ucciso, lo aveva fatto. Un piccolo passo, ancora, ma indispensabile.

      Camminava lentamente, riflettendo. Era tanto assorto, che urtava i passanti, senza evitarli, come se non li vedesse. Viveva già la sua inchiesta. Come preso dal risucchio di un vortice, si sentiva trascinato nel gorgo di quel dramma. Perché, anche a parte il fatto dell’uomo strangolato, per essere un dramma, quello lo era. È tutt’altro che semplice. Quel vecchio venditore di Bibbie cominciava ad assumere ai suoi occhi una personalità stranamente complessa. Si poteva pensare che a ucciderlo fosse stato uno dei suoi debitori, per evitare una scadenza minacciosa o per vendetta? Troppo semplice! E sopratutto improbabile, dato il genere speciale delle persone, che ricorrevano a lui per denaro. Tutti letterati o editori. Gente, forse, cinicamente spregiudicata, come quel Venanzi Jacobini, o pavida e piena di sussiego come il dottor Piermattei, ma non certo capace, per definizione, di un delitto così particolarmente atroce. A meno che non si trovasse tra loro uno squilibrato, un paranoico, con qualche tara ereditaria o acquisita di alcoolismo o di droghe. Ambiente strano, assolutamente diverso dagli altri, ma per questo appunto più facilmente caratterizzabile. E poi c’era da considerare ancora l’altra personalità del bifronte Giobbe Tuama! Quella che lo faceva appartenere alla milizia operante della Lega Evangelica, che gli faceva vender Bibbie e lo induceva a mescolarsi tra la folla per propagandare il verbo del Signore. Un crimine di fanatismo? Poco probabile anche questa ipotesi, ma non da escludere. E per di più quel Tuama era straniero. Un irlandese, aveva detto il giovane scrittore col monocolo, che certo lo conosceva bene. Altro aspetto del problema. Più fanatici degli irlandesi dove trovarli?

      Entrò nel portone di San Fedele e vide subito Sani venirgli incontro.

      — Scusami! Ma dove diavolo t’eri cacciato? Ho mandato Cruni a cercarti e non t’ha trovato. Il Questore ti vuole subito!

      De Vincenzi sorrise.

      — Lo immagino!

      — È furibondo…

      — Non preoccupartene. Ho qui di che calmarlo – e diede un colpetto all’involto, che aveva in mano.

      Il Questore lo accolse, senza eccessiva cortesia.

      — Lei vuol rimanere in ufficio tutta


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