Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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s’era fatto livido. Per qualche istante non riuscì a pronunziar parola. Sembrava che tutta la sua sicurezza fosse caduta e la mole poderosa del suo corpo ebbe come un insaccamento. Qualcosa in lui s’era rotto.

      De Vincenzi l’osservava, cercando di non manifestare lo stupore, che gli procurava quel turbamento improvviso e inspiegabile.

      — Ma allora… non lo hanno ucciso per derubarlo?!

      — Evidentemente. A meno che Giobbe Tuama avesse avuto addosso a sé somme assai più rilevanti delle mille lire del sacchetto…

      L’altro scosse la testa.

      — È poco probabile.

      — Una vendetta, allora. Voi sapete che il vecchio avesse nemici?…

      — Non so… C’è da supporlo; ma io lo ignoro.

      — Che cosa faceva Giobbe Tuama nel Sud Africa?

      — Era cassiere di una società per la ricerca e l’estrazione dei diamanti.

      — In che anno?

      — Millenovecentodue… tre… non ricordo…

      — E voi?

      — Io… io ero impiegato nella stessa società…

      — E dite che vi siete ritrovati a Milano per caso?!

      — Già.

      — Bene. Lo vedremo. C’è altro che vogliate dirmi, Beniamino O’Garrich?

      — No.

      — Quando lasciaste Tuama, a mezzanotte, dove andaste?

      — Bertrando mi accompagnò fino a via Cappellari. Presi il tranvai per Lambrate. Io abito in via Cesarotti, alla Martesana…

      — E Bertrando?

      — Se ne sarà andato a casa a piedi. Abita al Verziere.

      De Vincenzi girò attorno al tavolo e trasse dal tiretto il denaro del Signore.

      — Prendete e tornate al banco. Desidero che la vendita delle Bibbie continui come se nulla fosse accaduto.

      Di nuovo il terrore lampeggiò negli occhi dell’uomo.

      — È necessario? – balbettò.

      — Sì.

      — Io non vorrei star lì… Debbo, tornarmene a casa…

      — Ci tornerete stasera. Andate. Verrò anch’io tra poco laggiù.

      Il colosso si alzò e si avviò alla porta. Camminava pesantemente. Doveva sentirsi le gambe molli. Qualcosa di terribile s’era abbattuto su lui.

      De Vincenzi lo seguì con lo sguardo assorto. Il dramma si presentava assai più terribile di quanto gli fosse apparso al principio. E Beniamino O’Garrich sapeva molto più di quanto non volesse dire.

      Il commissario ebbe un gesto e tese la mano verso il campanello. Poi si trattenne. Andrò io, pensò. E del resto, accanto al colosso alla Fiera c’era già un agente.

      Procedette rapidamente all’interrogatorio di tutti coloro che eran stati condotti a San Fedele e, come prevedeva, da essi non tirò fuori nulla di importante.

      Avevano veduto Giobbe Tuama, lo avevano notato – come non notarlo con quel suo tait nero, il cappellaccio a melone e il naso a clava, quando poi per tutto il pomeriggio non aveva fatto che gridare il Libro dei Libri? – e se ne erano andati a mezzanotte o prima, senza occuparsi menomamente del vecchio e di quanto accadeva attorno al banco delle Bibbie.

      Soltanto Tino Fiamma poté dire qualcosa di più. E lo fece con la sua scelta loquela, pesando le parole, arrotondando le frasi, illudendosi di dare a De Vincenzi l’impressione che era mosso solo dal desiderio di aiutare la polizia nella ricerca dell’assassino. In realtà era preoccupato esclusivamente della propria posizione di debitore dell’ucciso!

      Il commissario lo lasciò andare. L’attività strozzinesca di Tuama non era che un aspetto del problema e non il più importante, secondo lui. Avrebbe avuto sempre tempo di occuparsene con comodo.

      Chiamò Cruni.

      — Chi rimane ancora di là?

      — I due vigili notturni e il Pastore, che è arrivato in questo momento. È un giovanotto… Se lo vede, sembra un damerino… Oh! che i preti sono così?…

      De Vincenzi sorrise.

      — Chiamalo reverendo, quando gli parli e fallo venire pel primo.

      Ma il telefono squillò. Istintivamente, il commissario fece cenno al brigadiere di fermarsi. Prese il cornetto e alle prime parole che ascoltò, ebbe un sussulto.

      Uno straniero era stato trovato morto in una camera dell’Hôtel d’Inghilterra, in Corso Vittorio Emanuele. Lo avevano ucciso. Un certo Giorgio Crestansen, danese, proveniente dall’America. E il Questore gli diceva che tra le carte del morto c’era una lettera in cui si nominava Giobbe Tuama. Il primo sopraluogo era stato fatto da Micheli, il medesimo commissario che si era recato in Piazza Mercanti quella mattina, e per questo aveva potuto rilevare subito la coincidenza.

      — Sta bene, commendatore. Vado.

      — Fa’ aspettare il Pastore e i due vigili… Non debbono muoversi finché non torno…

      Prese il cappello e uscì di volata, dicendo a Sani:

      — Vieni con me all’Hôtel d’Inghilterra.

      R

      Un cliente senza distinzione

      Sani lo raggiunse al principio di Corso Vittorio Emanuele e gli si mise al fianco. De Vincenzi, che per via Agnello aveva proceduto quasi di corsa, adesso si vide costretto a rallentare. Il marciapiede del Corso era pieno di gente e per di più loro due andavano contro corrente.

      Nell’atrio dell’Hôtel d’Inghilterra, li accolse Micheli.

      — È la giornata! – esclamò il pover’uomo, che aveva sperato di passare una domenica tranquilla e che s’era trovato preso nell’ingranaggio di quei delitti a ripetizione.

      — Strangolato anche questo? – chiese De Vincenzi.

      — No. A costui hanno piantato uno spillone nel cuore. Un delitto mostruoso. Debbono averlo prima cloroformizzato… Ho sentito l’odore del cloroformio, entrando nella stanza.

      — C’è il dottore su?

      — Sì. E anche il fotografo e il giovane delle impronte… Li ho fatti venire dal Gabinetto di Polizia Scientifica. Ho avuto l’intuizione che questo nuovo delitto fosse collegato a quello di Piazza Mercanti, appena ho sentito il nome straniero del morto… Poi ho trovato la lettera e ogni dubbio m’è scomparso…

      Trasse una busta di tasca e la porse a De Vincenzi.

      — Dove l’hai trovata?

      — Nella valigia dell’assassinato. Vedrai. Non aveva che una sola valigia, con dentro indumenti personali e oggetti di toletta. In mezzo agli abiti c’era quella lettera.

      De Vincenzi andò a sedere in un angolo del vestibolo e osservò attentamente la busta. Grande e pesante, bianca. Non recava alcuna intestazione. Portava il francobollo italiano ed era stata spedita da Milano a Detroit, in America. Lesse la data del timbro: 8-2-1933. Un anno e qualche mese prima. Era diretta: Mister George Crestansen – Post office C. 1250 – Detroit (Michigan). Chi l’aveva ricevuta, l’aveva aperta con cura, tagliandone con esattezza uno dei lati. De Vincenzi ne estrasse un foglio di carta pesante, scritto a macchina in inglese. Il foglio portava a stampa questa intestazione, in italiano: Agenzia di Polizia Privata «Radio» – Relazione strettamente personale, da non mostrarsi ad alcuno.

      Lesse


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