Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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una ragione per sposarlo ha da averla avuta, no? Escludete l’amore, escludete l’interesse, che cosa rimane?

      — La necessità di dare un’apparenza legale a una complicità di cui ancora mi sfuggono le forme e gli scopi, ma che indovino losca e pericolosa.

      — Oh! là là! Come correte! A ogni modo sarebbe un interesse anche questo! Diciamo, allora, complicità. In che cosa potrebbe turbarvi, essa?

      — In tutto. Ma andiamo avanti: voi siete la moglie di Nikola da tre mesi, lo avete sposato a Marsiglia, ebbene, voi venite ad Alessandria con un piroscafo delle Messageries e vi giungete alcuni giorni prima che vi arrivi Nikola, il quale viaggia con me su di un piroscafo della Sitmar . Come spiegate questo?

      — Non lo spiego. Anzi non desidero spiegarvelo. Come potrebbe interessarvi?

      — Mi interessa moltissimo. Ma non è tutto. Voi siete la moglie di Nikola, ebbene voi abitate al Claridge e lui a casa sua, dove ha un’altra moglie araba e dove voi lo andate a visitare due volte il giorno, mentre la notte... ecco, la notte vi recate nella camera del primo uomo che vi trovi bella e che ve lo dica.

      — Mi rimproverate per questo, ingrato!

      — Non vi rimprovero, constato. E aggiungo: soltanto un caso ha fatto sì che io venissi a sapere che siete la moglie di Nikola Cripopoulo; se non lo avessi saputo, quale storia mi avreste narrata questa notte lo sa il cielo!

      — No, non lo sa. –

      — Chi?

      — Il cielo; perchè non lo so neppur io. Infatti, vi avrei narrato una storia. Non lo nego. Ma poichè non ho più nè la voglia, nè una ragione per raccontarvela, che cosa ve ne importa?

      Franzyska mi si avvicina. Sento un braccio scorrermi dietro il collo e una fresca mano setificata posarmisi dolcemente sulla bocca:

      — Basta, John! Basta con questo interrogatorio inutile! Non vi sembra di sciupare un tempo prezioso?! Non credete che io valga meglio e di più di tutte queste domande?

      Sì, certo, ella vale di più. Se avessi avuto ancora dei dubbi, il contatto del suo corpo me li avrebbe tolti. E del resto, che cosa pretendo io? Che costei, se ha un segreto, come certo lo ha, me lo confidi spontaneamente, semplicemente, la prima volta che si trova a letto con me? Si può concedere il corpo così; ma il cervello, il cuore, il meccanismo delicato e misterioso della propria esistenza, no! Sono stato pur sciocco a sperarlo!

      — Franzyska, non badate a tutte le sciocchezze che vi ho detto! Rispondete soltanto a questo, soltanto a questo, Franzyska: perchè subito mi avete dato un appuntamento, proprio a me, e prima ancora che io ve lo chiedessi?

      — Perchè non c’eravate che voi. Perchè, pur non amandovi, mi piacete. Perchè... cerco l’amore, John, non un amore, l’amore, semplicemente, come lo cercate voi uomini, come lo cercano tutte le bestie, umane e no, sotto questo sole d’inferno, nella calura di queste notti che stremano e incendiano. Non conoscete l’Egitto, John! Io lo conosco ormai da tre notti! Queste terre, alla notte, sono tutto un palpito, tutto un ansioso affocato spasmodico palpito d’amore!

      Ebbene, ancora ha ragione lei. E io smarrisco tra le sue braccia ogni possibilità di ragionare, di conoscere, di temere.

      Chi ha fatto girare la maniglia della porta?

      Ho sentito distintamente lo scatto della molla. Non dormivo, ero affranto, spossato, dolcemente inebriato di languore, ma non dormivo. Ho sentito lo scatto: uno scatto metallico, secco, che ha gridato ahi! sul lieve respirare ritmico di Franzyska e sul mio, più forte del ronzio uniforme delle zanzare, altissimo nel silenzio di questa notte immota.

      Mi sollevo sul gomito e guardo fissamente alla porta. La luce è ancora accesa. Maledetta zanzariera! La sollevo, mi sporgo dal letto; inchiodo il mio sguardo contro il pomo nichelato della maniglia, sul piccolo catenaccio che Franzyska ha fatto scorrere, un catenaccio da burla, che una spallata basterebbe a far saltare.

      Ecco, è passato un minuto, forse due, e veggo, veggo chiaramente il pomo girare e sento la porta gemere lentamente sotto una pressione debole sì, ma continua, la pressione di una spalla o di un ginocchio appoggiati contro di essa.

      Apro la zanzariera, balzo dal letto, afferro la rivoltella e guardo la porta con gli occhi sbarrati, i muscoli contratti, il corpo pronto allo slancio. Rattengo il respiro, nell’attesa. Uno strano formicolio mi stringe i fianchi, mi opprime il petto, mi sale per il collo alle guance. Provate a sentire nella notte lo scatto metallico di una maniglia e a vedere una porta che si muove, che vuole aprirsi, che si aprirà, mostrandovi qualcosa o qualcuno che ignorate ancora, che non sapete immaginare, che è il pericolo ignoto o soltanto l’ignoto, e capirete la sensazione spasmodica che provo io in questo momento di attesa, lungo come un’eternità.

      Il gemito lento smorzato della porta si prolunga sotto la pressione che intuisco, che vedo.

      — Che c’è? Che avete? Perchè fate questo, John?

      Franzyska s’è destata e mi fissa con i suoi grandi occhi verdi.

      — Tacete! C’è qualcuno che vuole entrare e che preme contro la porta.

      Franzyska guarda, trasale, salta accanto a me, con gli occhi sbarrati, le labbra esangui, il corpo agitato da un tremito convulso.

      — No! No!... Chi è? Chi è, là dietro?

      La voce le esce strozzata dalla gola; ella ha paura, ella ha più paura di me.

      — Tacete, dunque! – e la serro contro di me, e le comprimo la bocca con la mano libera dalla rivoltella. – Tacete, o lo farete fuggire!

      Ecco: la pressione è cessata, la porta non geme più, la maniglia come liberata dalla stretta che la teneva scatta di nuovo seccamente.

      — Maledizione!

      Getto il corpo di Franzyska contro il letto, mi lancio alla porta, levo il catenaccio, spalanco il battente e corro nel corridoio. Nessuno. Il largo corridoio illuminato è vuoto, silenzioso, ovattato di immobilità dal greve tappeto rosso alle lampade opache attorno a cui ronzano le mosche. Lo percorro fino allo scalone, mi getto nell’altro braccio di esso, ritorno dinanzi alla porta della mia camera. Nessuno. Rattengo il respiro per udire un passo, un rumore, un indizio di vita. Nulla. Eppure, certo, qualcuno ha tentato di entrare nella mia camera! E non può essere fuggito così rapidamente, che io non lo abbia veduto o per lo meno non lo abbia sentito scendere o salire le scale, nella sua fuga.

      — Rientrate, rientrate, dunque! Abbiamo sognato.

      Ma non abbiamo sognato. Vedo in terra brillare qualcosa, proprio davanti alla mia porta, sul tappeto rosso. Mi chino e raccolgo un bottone d’argento, un bottone da camicia da uomo di filigrana d’argento, con una pietra gialla nel mezzo. Adesso, sono di nuovo completamente padrone di me. Questo bottone ha dato un segno al pericolo, un volto all’ignoto, una cifra al mistero.

      — Perdonatemi, Franzyska! Certo è stato un sogno. Coricatevi. Chiudo nuovamente la porta e mi corico con voi.

      Franzyska ha passato il braccio attorno al mio collo e mi accarezza dolcemente

      — Povero caro! Ma perchè vi siete messo in questo stato di ansia? Che cosa avete? Di chi o di che cosa temete?

      — Ma di nulla, Franzyska! È stato un sogno. Un’allucinazione, del resto, che avete avuta anche voi!

      — Dormite ora, John. Dormite, piccolo caro!

      E leva la mano contro la luce, per farne schermo ai miei occhi. Guardo la mano affusolata, bianchissima, il polso sottile, che una vena azzurra traversa... e vedo che la manica del suo pigiama è chiusa da un bottone di filigrana d’argento con una pietra gialla nel mezzo. Le afferro l’altro braccio, guardo al polso: i bottoni ci sono tutti e due.

      — Che bei bottoni avete, Franzyska.

      — Questi? Sono strani, ma non belli. Li ho comperati al Cairo e li conservo per ricordo. Tutti gli indigeni che vestono all’europea li portano.


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