Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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      — Assieme?

      — Sì, assieme.

      — Col cane?

      — Sempre, a quest’ora, escono col cane.

      La donna aveva qualche lampo di maliziosa ironia negli occhi.

      — Ma mi dica, commissario… Che cosa vuole da quelle signore?

      De Vincenzi chiuse la porta a vetri dietro di sé. Avanzò verso la tavola apparecchiata.

      Sedette. La portinaia lo guardava fare, con preoccupazione. Rimase in piedi dal lato opposto della tavola.

      — Lei mi ha detto che miss Down non riceve mai visite di uomini.

      — Ebbene?

      — Crede di potermelo confermare?

      La portinaia lo fissò.

      — Che vuol dire, che qualche uomo è venuto a trovarla? Naturalmente! Sarà anche venuto… Lei mi ha chiesto se la signorina aveva un amante… io le ho risposto di no. È la verità! Nessuno può averle detto che…

      — Nessuno mi ha detto nulla! Ma io desidero sapere se lei ha veduto qualche volta salire dalla signorina Down un uomo ancor giovane, bruno, coi lineamenti marcati, gli occhi scintillanti…

      La nipote fece un gesto, che un’occhiata della zia fermò a metà.

      — Mi ascolti bene… – riprese De Vincenzi dopo una pausa e cominciò a descriverle di nuovo il Pastore.

      La donna taceva, col volto concentrato, le ciglia aggrottate. Era evidente che cercava di rendersi conto di come quel nuovo personaggio avesse a che fare con lei e con gli inquilini della casa, più ancora che non si sforzasse di richiamare i suoi ricordi. De Vincenzi si disse che un tale atteggiamento d’incosciente complicità con l’americana poteva non significar nulla. Per istinto la portinaia proteggeva le persone che le erano vicine. Tra un funzionario di Questura – che rappresentava sempre per lei un pericolo oscuro, un creatore pernicioso di noie e fastidi – e le due donne, la prima scelta non poteva esser dubbia.

      — Chi è quest’uomo? Che cosa vuole che ne sappia, io?

      — Badi! la cosa è grave. Ci sono due morti.

      La donna impallidì e diede uno sguardo sgomento alla nipote.

      — Perché non dici, zia, che il Pastore veniva ogni sabato e ogni domenica…

      — Lo conoscete, dunque! Sapete che è un Pastore evangelico…

      — Ma sì!.. Soltanto, non c’era nulla di strano che venisse… Non avevo alcuna ragione per credere che la cosa avesse importanza e per dirgliela…

      — Ebbene, mi dica adesso tutto quel che sa…

      — Ma non so nulla! Il Pastore veniva il sabato sera a cena, credo, e la domenica a colazione… Penso io che miss Down lo trattenesse a colazione e a cena, perché lo vedevamo arrivare alle sette del pomeriggio, il sabato, e alle dodici e mezzo, la domenica, e non scendeva che dopo un paio d’ore…

      — Oggi è domenica… È venuto iersera?… Le due donne si guardarono.

      — Ma no, zia! Non è venuto né iersera, né stamane…

      — Infatti! – fece la portinaia e involontariamente la sua voce ebbe un impreveduto accento grave. – Non è venuto né ieri, né oggi…

      La sera prima erano stati commessi i due assassinii e la domenica la signora Winckers Shanahan si era recata in casa di Giobbe Tuama… Vero è che De Vincenzi l’aveva trovata sul pianerottolo ad attenderne il ritorno…

      — Lei è sicura che non può dirmi null’altro?

      La donna alzò le spalle.

      — E poi, lei non mi ha detto neppure di che si tratta! Che cosa è accaduto, insomma?

      Il commissario si levò.

      — Bene. Tornerò. Non parlate a nessuno… a nessuno, capite?… di queste mie indagini. Ve ne potreste pentire.

      In istrada, De Vincenzi cercò di non pensare a quanto aveva visto e sentito nelle ultime ore. Era stanco. Aveva bisogno di far riposare il cervello. Non era possibile trarre ancora alcuna conclusione. Soprattutto sarebbe stato troppo avventato e pericoloso trarne.

      Oramai, era sera inoltrata.

      Quando passò davanti all’Olimpia, il largo marciapiede del teatro era pieno di gente che entrava. I tranvai della periferia rovesciavano sul Largo Cairoli il loro carico di famigliole e di coppie, che scendevano al centro a godersi la serata domenicale nei caffè e nei cinema. Anche la Fiera del Libro doveva essere affollata.

      Quando fu al termine di via Dante, De Vincenzi fece forza su se stesso e piegò per via Broletto. Non voleva andare alla Fiera. Era illogico quel che faceva. Il suo dovere gli avrebbe imposto di andarvi, eppure, lui, sentiva di dover reagire. Non voleva veder Beniamino, quella sera, non voleva veder Bertrando, non voleva saper più nulla di quanto aveva attinenza con l’assassinio di Giobbe Tuama. E così ripeteva a se stesso che non sarebbe andato neppure all’Hôtel d’Inghilterra. Aveva bisogno di esser solo. Non per pensare a quanto aveva appreso, ma appunto per non pensarvi.

      Una notte di tranquillità assoluta. Una notte di completo riposo. E alla mattina avrebbe ripreso le sue indagini, dal principio.

      Tra poche ore la Fiera si sarebbe chiusa. A mezzanotte avrebbero portato via banchi e libri, schiodato paratie di legno e tolti festoni e bandiere. Certo, così, sarebbe scomparsa per sempre la scena del delitto. L’atmosfera di esso si sarebbe rarefatta. Lui voleva appunto non soggiacere alla suggestione di quella scena e di quell’atmosfera.

      Dopo una buona nottata di sonno, avrebbe potuto proiettare nel vuoto i suoi ricordi. Considerare avvenimenti, uomini e cose dall’alto e da lontano. Soltanto in tal modo avrebbe forse scorto i legami che univano – invisibili e segreti – le varie persone di quello strano dramma.

      Ma in Questura doveva andare. Sarebbe passato a fare un rapporto sommario al suo Capo e poi subito a casa.

      Girò per via Santa Margherita, traversò Piazza della Scala, costeggiò Palazzo Marino.

      Si sentiva insolitamente leggero e inspiegabilmente lieto e sereno.

      Entrò nel portone vasto, passò pel cortile deserto. Sani era seduto al proprio tavolo.

      — Sei qui? Come vanno le cose?

      — Il Questore mi ha cercato?

      — Ha chiesto di te, per telefono. Ma quando ha saputo che eri fuori, mi ha detto che se ne andava a casa e che ti avrebbe veduto domattina.

      — Meglio!

      Si guardò attorno. Sul tavolo erano gli oggetti trovati in dosso a Giobbe Tuama. La catena dell’orologio spezzata, con la chiavetta, il fazzoletto, un libricino di appunti. E poi quel che Cruni aveva portato dalla casa di via Bramante, la cassetta con tutte le lacrime del prossimo, tenute in serbo dall’usuraio. Sopra una seggiola la valigia di cuoio scuro, che aveva appartenuto a Giorgio Crestansen e che Sani aveva fatto portare lì dall’albergo.

      De Vincenzi si tolse di tasca la chiavetta della cassaforte, dalla quale pendeva il pezzo della catenina di platino. Lesse macchinalmente il numero: M. 368. L’indomani avrebbe verificato alla banca. Quale banca?

      Squillò il telefono.

      De Vincenzi ebbe un sobbalzo. Sani s’avviava per rispondere.

      — Aspetta. Rispondo io.

      Col cornetto in mano, dopo aver detto pronto, Sani lo vide contrarre i muscoli del volto, stringere le labbra con forza, come per impedirsi di bestemmiare.

      — Vengo – disse e depose il cornetto sulla scatola nera. Rimase per qualche istante contro il tavolo, immobile, assorto.

      Il


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