Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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il medico disse ancora:

      «Naturalmente, domattina alle nove sarò al Monumentale. Mi faccia trovare il cadavere sul banco della sala e avverta i periti settori che sarò a loro disposizione… Buona notte.»

      «Grazie. Buona notte.»

      Maccari non aveva neppure risposto al saluto, tanto era assorto.

      E furono di nuovo soli. Ma De Vincenzi, questa volta, sembrava non avere esitazioni. Lo sguardo gli si era fatto brillante, duro. Andò vicino al collega e gli posò una mano sulla spalla.

      «Ascoltami…»

      Tacque, mormorò tra sé:

      «Sì, è un rischio, ma debbo correrlo. In fondo è un amico, un compagno d’infanzia. Per un altro non lo farei; ma per lui…»

      Poi alzò la voce:

      «Ascoltami, Maccari. Ti chiedo un piacere, un grande piacere. È vero che la responsabilità di tutto l’assumo io; ma tu pure sei qui e domani puoi essere chiamato a risponderne…»

      L’altro rimaneva placido. Tutto quell’esordio non gli aveva fatto impressione, quasi se lo fosse aspettato.

      «Oh! Per me… Dimmi pure…»

      «Ecco. Va’ giù. C’è Aurigi. Scendi, come se tu solo ti fossi trovato qui. Digli che io me ne sono andato da un pezzo. Non parlargli di… di quel che c’è lì dentro… Inventagli qualcosa, quel che vuoi, che c’è stato un furto nella casa, che a San Fedele hanno capito male la mia telefonata e che lo hanno accompagnato qui, invece di avvertirlo semplicemente, come avevo telefonato io… Cerca di dargli l’impressione che sia tutto finito e che era cosa da nulla e… fallo salire… solo. Hai capito?»

      Maccari aveva capito e guardava quel giovanotto, che poteva essere suo figlio, con occhi affettuosi. Lo ammirava, pur dicendosi che forse stava commettendo una sciocchezza grossa.

      «Ci hai pensato bene? È un rischio!»

      «Te l’ho detto io per primo!»

      Maccari non esitò. Alzò le spalle:

      «Sei giovane! Puoi anche correre qualche rischio…»

      Si abbottonò per la ventesima volta il pastrano e prese il cappello, che era su una sedia.

      «Vuoi che dopo rimanga giù?»

      «No. Ordina soltanto a Cruni di far finta di andarsene con voialtri e di tornare indietro subito. Che si fermi in portineria e aspetti.»

      «Bene… Ciao e che Iddio te la mandi buona…»

      Uscì in fretta. Aveva un gran desiderio di farla finita con quella casa e anche l’ultima missione gli pesava. Oh! Non per la responsabilità. Se ne infischiava, lui; ma proprio per l’imbarazzo da superare ad eseguirla.

      Scese le scale, seguito dall’agente e ad ogni gradino sostava un poco.

      Intanto, De Vincenzi, rimasto solo, era andato rapidamente in salottino. Aveva guardato il cadavere. Il dottore lo aveva interamente coperto con un lenzuolo. Gli si avvicinò, senza repugnanza, e gli scoprì il volto e una parte del petto. Il morto, adesso, aveva gli occhi chiusi e sembrava dormisse. Soltanto quel foro sulla tempia era nero, visibile, sinistro.

      Se ne allontanò senza fretta, ma con soddisfazione e spense la luce del salottino.

      Quando fu di nuovo nella sala, si guardò attorno un attimo e spense la luce anche lì. Adesso non era illuminato che l’ingresso. Vi andò e girò il commutatore. L’appartamento fu tutto al buio, con quel morto sul divano.

      De Vincenzi si cacciò in un angolo, vicino alla cucina, dietro un grande armadio. Aveva trovato quel nascondiglio a tastoni, nelle tenebre, e vi si era diretto con una certa sicurezza, perché l’aveva adocchiato prima.

      Attese. Non respirava neppure. Aveva l’impressione che tutti i suoi pensieri girassero vorticosamente attorno a un punto. E quel fulcro era una domanda:

      «Che cosa farà?»

      Sentì mettere la chiave nella toppa, girare, scattare la molla e l’uscio si aprì. Nel quadro della porta, illuminato dal di dietro per la luce delle scale, apparve Giannetto. Aveva la pelliccia aperta e il gibus in testa. Un po’ pallido, ma non troppo. Entrò, richiuse la porta, accese la luce. Si guardava attorno. Era evidente che scrutava dentro quella solitudine. Entrò poi nella sala e accese anche lì. Anche lì si guardò attorno, guardò il divano, diede una occhiata alla porta chiusa della camera da pranzo e poi a quella aperta del salottino. Appariva quasi meravigliato di vedere tutto in ordine. Ad un tratto, si fermò con un sussulto, come se avesse sentito un passo, e si voltò verso la porta di fondo, aspettando. Non vide nessuno, e la sua meraviglia crebbe. Si passò una mano sulla fronte. Accennò ad un sorriso, che svanì subito. Poi si decise. Adesso, si muoveva con naturalezza, rapidamente. Andò nell’ingresso, spense la luce, tornò in sala. Raggiunse la porta del salottino, mise la mano dentro e girò il commutatore, poi tornò a spegnere in sala e col passo sicuro varcò la soglia del salottino.

      Risuonò un grido atroce.

      De Vincenzi, appena aveva veduto spegnersi la luce nella sala, era uscito dal suo nascondiglio e si era avvicinato alla porta. Quando sentì il grido, riaccese la luce con un movimento rapido. Si sentiva sicuro, tranquillo come un medico che si appresti a fare un’operazione.

      Dal salottino Aurigi tornò. Era a capo scoperto, vacillava. Aveva il terrore della follìa nello sguardo.

      De Vincenzi fece qualche passo verso di lui.

      Aurigi lo vide. Lanciò le mani in avanti disperatamente, quasi per allontanare un’ombra, che lo atterriva e cadde a sedere su di una poltrona.

      L’altro gli si avvicinava sempre, fissandolo negli occhi.

      «Tu? Perché?» riuscì a pronunciare Giannetto con voce strangolata.

      E De Vincenzi gli rispose con tranquillità, senza un fremito, col tono di chi vuol rassicurare:

      «Adesso, cerca di rimetterti… Dopo… parleremo…»

      A sinistra di quel salotto c’era un caminetto. Sopra il caminetto una pendola. E la pendola batté le ore. Quattro colpi, sonori.

      De Vincenzi trasalì. Guardò il sestante bianco con quei segni neri e poi Giannetto.

      Era quasi un’ora che Aurigi si era schiantato sul divano, rimanendo lì, quasi tramortito da un colpo sul capo. Aveva gli occhi aperti, ma non si sarebbe detto che vedesse. Non pertanto, guardava. Un’ombra, forse, che appariva a lui solo.

      E De Vincenzi era rimasto a fissarlo lungamente, dicendosi che quella immobilità non poteva significare nulla di buono e certamente non avrebbe dato alcun frutto. Immobilità, che produce smarrimento, quando arriva al culmine delle possibilità umane. Perché anche il cervello ha limiti precisi ai quali può giungere e quando le idee sorpassano quei limiti, entrano in una atmosfera nebbiosa, quasi lutulenta. Che è l’atmosfera della pazzia.

      Poi De Vincenzi si era seduto su di una poltrona, presso il tavolo. Aveva cercato, sul principio, di togliersi dal cerchio visivo di Aurigi, per permettergli di ritrovare se stesso; ma quando si era avveduto che il suo amico, non soltanto non ritrovava se stesso, ma nulla affatto della vita e del pensiero ragionevoli, aveva voluto avvicinarglisi e se ne era ritratto quasi con timore.

      Nella camera accanto dormivano, forse sopra un divano o forse no, perché quel divano, posto di fronte al salottino col cadavere, non era fatto per far riposare nessuno, il brigadiere Cruni e un agente.

      Dormivano, certo, perché il commissario non li sentiva più muovere, né parlare. Li aveva fatti salire, quando si era accorto che per quella notte gli sarebbe stato impossibile interrogare Aurigi.

      E adesso, che la pendola aveva battute le quattro, De Vincenzi deliberatamente si alzò e andò nella stanza accanto. Dovette scuotere Cruni, che dormiva sodo, e gli disse:

      «Vado


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