Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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ancor più concentrato ed assorto. Entrò in un bar e bevve due tazze di caffè, una dopo l’altra. Guardò l’orologio e vide che erano ormai quasi le nove, allora saltò in un tassì e si fece portare in via Monforte.

      Passando davanti alla portineria, vide la portinaia che lo fissava con occhi lucidi e ansiosi.

      Entrò e la donna non trovò neppure il modo di dirgli «buon giorno», tanto aspettava in pena che lui parlasse.

      Quel morto nella casa l’aveva sconvolta. Non si era neppure quasi pettinata e, senza cipria, aveva il volto lucido della donna grassa, che ha la secrezione facile.

      «Ditemi un po’, voi!» l’investì De Vincenzi, che non aveva tempo e voglia di badare alle forme, e la portinaia sussultò.

      «Che c’è, ancora?»

      «Parlavate, questa notte, di una soffitta… Di un uomo, che l’abita… Che sarebbe capace…»

      La donna inghiottì la saliva.

      «Ho detto così… quando credevo che si trattasse d’un furto… Ma adesso!…»

      «Ebbene, chi è colui del quale parlavate?»

      «Un giovanotto. Oh! un giovanotto distinto del resto, all’apparenza. Ma non deve avere un soldo. C’era all’ultimo piano una stanza vuota… Sa? Una di quelle stanze che si danno ai domestici… E mio marito volle affittargliela… Saranno quasi due anni, ormai. Lui vi rimane chiuso quasi tutto il giorno. Scrive, che so?, dice che fa romanzi, novelle… Ma certo non gli danno da mangiar polli quelle sue storie… Perché s’è preso un fornelletto e alla mattina esce a comperarsi qualche cosa….»

      «Come si chiama?»

      «Remigio Altieri.»

      «All’ultimo piano, avete detto?»

      «Sì, la stessa scala del signor Aurigi.»

      Il commissario uscì dalla portineria e salì al quarto piano. Passando davanti alla porta d’Aurigi, la vide semiaperta e affrettò il passo, perché non voleva essere fermato in quel momento.

      Trovò facilmente l’uscio. Era l’unico chiuso, mentre gli altri si aprivano sul lungo corridoio illuminato da una lampada elettrica sempre accesa.

      Picchiò e comparve nel riquadro della porta un giovane biondo, vestito di nero, che fissò meravigliato il visitatore.

      «Il signor Altieri?»

      «Sono io»

      «Vorrebbe permettermi?»

      E De Vincenzi entrò, passando davanti all’altro, che istintivamente, si era ritratto.

      «Ho da parlarle.»

      Si guardava attorno. La camera era modesta, ma molto pulita. E anche i mobili erano notevoli; pochi ma antichi. Forse, i resti di un’agiatezza tramontata. O forse mobili di una ricca casa di campagna, che i genitori si erano tolti, per darli al loro figliuolo emigrato in città.

      Uno studente, pensò il commissario.

      Il giovane era rimasto presso l’uscio ancora aperto e lo guardava. Il suo stupore era tale, che egli non pensava neppure ad irritarsi o a sdegnarsi per quell’intrusione quasi violenta. Si limitava a non sapersela spiegare.

      De Vincenzi vide il letto, un cassettone, un tavolo con una poltrona davanti e sul tavolo un grande ritratto di donna.

      Una bella donna: giovane doveva essere. Una gran massa di capelli, due occhi profondi e luminosi.

      Nella stanza un odore diffuso di acqua di colonia e di sigarette.

      Povertà? Miseria? Pasti grami e forse saltuari? Il commissario cercò invano tracce di un focolare o di un fornello a spirito. E in quanto alla miseria, se pur quella era miseria, essa aveva un’apparenza così dignitosa da incutere rispetto, se mai.

      «Vorrei rivolgerle qualche domanda, signor Altieri. Sono un commissario di Pubblica Sicurezza.»

      Il giovanotto non sembrò spaventato. Anzi, si sarebbe detto che adesso la sua sorpresa fosse cessata. Chiuse la porta, però, con grande cura e andò verso De Vincenzi.

      «Non capisco…» disse.

      «Naturalmente. Da quanto tempo lei è a Milano?»

      «Due anni.»

      «E prima?»

      L’altro ebbe un sorriso. Trasse dalla tasca un cartoncino piegato e lo porse al commissario.

      «Credo che farà più presto a leggere la mia carta di identità. Sono nato a Nancy.»

      «Francese?»

      Il giovane assentì col capo.

      «Francese.»

      «Ma se parla benissimo l’italiano? Senza accento!»

      «Infatti! Da dieci anni sono in Italia. Avevo quindici anni, quando ci venni.»

      «Solo?»

      «Con mio padre.»

      «E adesso?»

      «Solo. Mio padre morì nove anni or sono. Dopo un anno, che ci trovavamo in Italia.»

      «E lei?»

      «È tutta una storia!» esclamò Altieri. «Vuol proprio ascoltarla? In tal caso, la pregherei di sedere.»

      E De Vincenzi, per tutta risposta sedette nella poltrona.

      Il giovane andò dall’altra parte del tavolo e sedette lui pure nella unica sedia che c’era.

      «Ma se volesse dirmi, signor commissario, quali sono le ragioni per le quali s’interessa a me, forse potrei darle quelle spiegazioni che le occorrono, senza raccontarle tante cose inutili.»

      «Preferisco sentir tutto, anche le cose inutili,» fece De Vincenzi un po’ seccamente.

      Subito si pentì. Quel giovanotto in fondo gli era simpatico. E lui evidentemente stava perdendo il suo tempo. Come ammettere che Altieri avesse ucciso Garlini o che comunque sapesse qualcosa del dramma?

      Il giovane alzò le sopracciglia, di nuovo sorpreso.

      «Ebbene, se è per farle piacere.»

      E raccontò sobriamente, senza frasi, senza appassionarsi neppure a quel racconto della propria vita, che egli faceva come se non lo riguardasse, tanto si capiva che doveva essersi ormai completamente diviso dal suo passato, recidendolo da sé con un taglio netto.

      Qualche altra cosa assai più importante e profonda lo univa al presente e all’avvenire. E forse, appunto quel passato era il peso morto, che oggi lo teneva e lo angustiava.

      «Sono nato in Francia da padre italiano e da madre francese. Può vedere sulla carta d’identità. Mia madre era una duchessa di Noailles. Aveva sposato mio padre contro la volontà dei suoi, dopo essere fuggita con lui. Mio padre era un pittore venuto in Francia a cercare fortuna. Mia madre, per sposarlo, fuggì da casa. I suoi genitori non vollero mai perdonarle. Con mio padre visse poveramente. Il babbo aveva molto ingegno, ma poca fortuna.»

      Fece una pausa e poi mormorò:

      «Come me!» ma subito arrossì e chinò lo sguardo.

      De Vincenzi guardava la fotografia sul tavolo. Lui se ne avvide e sembrò ancora più imbarazzato.

      «Voglio dire come me, per quel che riguarda la fortuna!»

      Rapidamente riprese la sua storia. La madre era morta, dopo quindici anni di matrimonio e suo padre allora, aveva fatto ritorno in Italia assieme al figlio. Aveva portato con sé i mobili, che aveva a Parigi. Il giovane si guardò attorno. Molti ne aveva venduti: gli erano rimasti quelli.

      Poi era morto anche suo padre, lasciandolo solo. Lui aveva studiato. Aveva vissuto, dando


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