Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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tutto io, quel che c’è da dire… quel che so… ma non lo interroghi! Non gli faccia conoscere questa cosa, orribile! Che vuole che possa dire lui!…»

      De Vincenzi si fermò.

      «Perché è venuto ad abitare in questa casa?…»

      Maria Giovanna lo scrutò, quasi volesse leggergli negli occhi fino a qual punto conosceva la verità.

      «Ma non c’è venuto… ci stava. Credo che abbia sempre abitato qui.»

      «No. Sono due anni appena.»

      «Ah!»

      «Perché continua a mentire?»

      «Ebbene, è vero. È venuto ad abitare qui, quando io mi fidanzai con Giannetto Aurigi.»

      «E lei perché si è fidanzata con Aurigi, se non lo amava, se amava un altro?»

      La giovane esitò. Tacque. Sembrava confusa. Ma nulla in lei rivelava la vergogna e il pudore offeso. Piuttosto una nuova angoscia.

      «Perché ha voluto far questo?» insisté De Vincenzi, che le si ergeva adesso davanti come un accusatore. E rimaneva con la mano sul saliscendi della porta, pronto ad aprirla.

      «Non posso dirglielo. Ancora non posso dirglielo. Esisteva una ragione ed era ferrea, attanagliante, terribile come un castigo divino. Ma non posso rivelarla. E mi lasci sperare di non dover rivelarla mai.»

      Il commissario tacque. L’osservava. Sembrava sincera. E, del resto, tutto in lei spirava una tale passione, un tale amore esclusivo e violento per quell’altro, per il giovane della soffitta, che era difficile immaginare che si fosse piegata alla rinuncia, senza una ragione formidabile, più forte di lei stessa e delle sue possibilità di lotta.

      «Non me la riveli. Forse, in tutto questo non c’entra. Ma sta di fatto che quando Remigio Altieri la seppe fidanzata ad un altro, a Giannetto Aurigi, volle venire ad abitare in questa casa. Quale fu il sentimento… o il calcolo che spinse lui a far questo e lei ad acconsentire?»

      «Perché parla di calcolo?» esclamò con rimprovero la giovane. «Eppure, avevo sperato che lei comprendesse… che lei fosse Umano…»

      «Non so!… Perché non mi spiega?»

      «Che ho da spiegarle? Altieri era stato il mio maestro di francese, fin da giovinetta. Troppo giovane anche lui, vuol dire? Fu il caso! Il babbo lo preferì ad altri professori… perché… perché costava meno… Il babbo è stato sempre molto economo…»

      Aveva detta quest’ultima frase in fretta, arrossendo, come se non quella fosse stata la ragione, ma un’altra.

      Subito cercò farla dimenticare, sorvolando:

      «Fu il Destino, gliel’ho detto! Non potevo conoscerlo altrimenti e dovetti conoscerlo così. E lo amai. Oh! non subito, naturalmente. Nei primi anni non mi ero resa conto del sentimento, che lui nutriva per me e di quello che stava sorgendo nel mio cuore, giorno per giorno. E lui non avrebbe neppure osato mai confessarmelo, se un giorno… Le debbo dire che negli ultimi anni, quando io ero già una giovane donna… una signorina libera o quasi… perché mio padre mi ha sempre educata liberamente, dandomi la sensazione delle mie responsabilità davanti a me stessa e agli altri… molto spesso con Altieri facevamo la nostra lezione, passeggiando… Del resto, si trattava, ormai, soltanto di conversazioni in francese e non di vere e proprie lezioni… Quel giorno, circa tre anni or sono, eravamo andati fuori di città, oltre l’Acquabella… era la nostra passeggiata preferita… Ci colse un temporale… uno di quegli acquazzoni d’autunno, che si scatenano all’improvviso e che sembrano voler sommergere la terra. Eravamo in aperta campagna, oltre la linea ferroviaria, oltre le fattorie e le case… C’era una scarpata… con un fosso… Là, sotto, il terreno rientrava… faceva una specie di volta… Corremmo a rifugiarci in quel riparo… Era stretto… L’acqua veniva di traverso… Ci addossammo più che potemmo al terreno… E mi trovai fra le sue braccia… Fu un lampo!… Per me quell’abbraccio costituì la rivelazione di me a me stessa… Quando tornammo a casa, sapevo di amarlo.»

      Aveva narrato l’episodio, vivendolo nella memoria e ne era stata così assorbita, da dimenticare anche la realtà presente. Gli occhi le lucevano; le gote le ardevano.

      «Ecco!» disse e davvero le sembrava che non ci fosse più nulla da dire. Per lei tutto cominciava e finiva in quell’amore.

      «E poi?» chiese con dolcezza il commissario. Anche lui si sentiva commosso: uno strano sottile turbamento lo aveva invaso. Una grande tenerezza. Un desiderio improvviso di fare il bene, di seminare la felicità attorno a sé.

      «E poi?» ripeté. «Continui pure. La comprendo.»

      «Sì!» esclamò Maria Giovanna. «Forse, lei, mi comprende! Ma il resto è più difficile. Non posso dirle tutto. Bisogna che mi creda, anche se quel che dico non è chiaro.»

      Si raccolse un momento.

      De Vincenzi aveva tolta la mano dal saliscendi. Adesso era inutile minacciare di andar su da quell’altro. Tutto gli appariva così logico, così naturale, così buono.

      «Vivemmo giorni d’estasi. Avevo l’impressione di trovarmi in un altro mondo, di non essere più me stessa. Remigio veniva per la lezione ogni giorno… ma adesso avevamo da parlare di noi, del nostro amore. Remigio faceva progetti. Si sarebbe imposto ogni sacrificio. Avrebbe raddoppiato il lavoro. Doveva arrivare a farsi una posizione. Io, però, non volevo nascondere nulla ai miei genitori. Volevo che sapessero. Remigio mi aveva raccontata la storia di suo padre e anch’io mi sentivo capace di abbandonare la famiglia, di fuggire con lui, come aveva fatto sua madre… Non ebbi il coraggio, però, di parlare subito col babbo… Una mattina, la mamma m’interrogò. Ad una madre non sfugge nulla di quel che passa nel cuore della propria figlia!… Non seppi tacere… non volli mentire con lei… Le confessai tutto. La mamma mi adora… Credevo di vederla aprirmi le braccia, felice della mia stessa felicità… Invece, scoppiò in pianto…»

      Fece una pausa, fissò De Vincenzi come per scongiurarlo di comprenderla e di permetterle di tacere quel che non voleva, che non poteva dire.

      «Sì. Scoppiò in pianto e mi disse che mio padre voleva che sposassi Giannetto Aurigi. Sentii uno schianto. Il mio primo impulso, fu di ribellarmi. Oltre tutto, mi sentivo incapace di recitare una commedia infame… Ma poi…»

      Tacque. Palpitava.

      «E lui? Altieri?» chiese De Vincenzi.

      «Ah!»

      Si allontanò. Andò al divano. Sedette. Sembrava assorta. Guardò la porta della sala da pranzo. Fremette.

      Poi si volse verso il commissario e gli disse con voce bianca, quasi continuasse il racconto, senza interruzione, senza lacune.

      Nel suo spirito, pur troppo, le lacune non esistevano!

      R

      «La prima volta che venni in questa casa a trovare Aurigi… era necessario che ci venissi!… vidi sul portone Remigio. Mi aspettava. Mi disse che abitava qui! Così lo avrei avuto vicino, sempre! E la sofferenza di lui era infinita. Un martirio, le dico!… E durò due anni… E poi, da qualche giorno, l’angoscia terribile del dramma, che precipitava… E poi il terrore della notte scorsa… E poi oggi!… Questo terribile presente, che mi appare…»

      «Quale dramma?…» chiese il commissario, chinandosi verso la giovane. «Quale dramma, che precipitava?…»

      «No!» gridò. «No!… Non posso dirlo!… Non debbo!…»

      Fissò quell’uomo, che le si faceva sempre più vicino, cercando di leggerle l’anima negli occhi, e agitò le mani davanti a sé, per allontanarlo.

      «Ho ucciso io Garlini! Ho ucciso io Garlini!»

      E tacque, spasimando.

      De Vincenzi si allontanò da lei con un gesto di dispetto. Il volto gli si contrasse.

      Sentiva


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