Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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che quelle pratiche hanno agli occhi dei profani. E, per quanto egli non fosse del tutto un profano, perché già si era occupato — soltanto sui libri naturalmente — di magia e di spiritismo, aveva avuto sempre un senso di pavido stupore dinanzi a coloro che praticano i riti magici o tentano di materializzare e d’interrogare le forze oscure dell’aldilà.

      Un fatto appariva innegabile: la filosofia occulta era stata la nutrice e la madrina di tutte le religioni, la leva segreta di quasi tutte le forze intellettuali, la chiave di ogni mistero divino, la dominatrice di gran numero di esseri umani…

      Ricordò la Profezia d’Ezechiele e l’Apocalisse, che l’infallibile Chiesa Cristiana non aveva neppur tentato di spiegare… Ma qui non si trattava ancora di magia, per buona fortuna! Se mai, di qualcosa di simile alle esperienze dei coniugi Taylor, di cui aveva letto la descrizione su di una rivista di studi psichici, che un giorno gli era capitata per caso nelle mani.

      Era così immerso in tali pensieri che si trovò senza accorgersene davanti alla bottega del libraio, in mezzo alla gente, ancora ferma nella strada a commentare. Diede una crollata di spalle e si fece largo fra i curiosi. Appena dentro, vide l’impiegato della libreria, che, salito su di una scala, passava in rivista le più alte file dei libri, sotto il soffitto. Giovanni stava appoggiato al bancone e Cruni s’era seduto dinanzi alla porta di fondo e fumava. Quando vide il commissario, il brigadiere si alzò. «E così?».

      «E venuto il giudice, ha dato il nulla osta e io ho fatto subito portar via il cadavere. Ho raccomandato di metter da parte i vestiti, senza scuoterli, perché lei potesse esaminarli…».

      «Hai fatto bene…».

      De Vincenzi gli dava del tu, come faceva sempre quando era assorto o quando aveva da agire in fretta.

      «E che cosa ha detto il giudice?».

      «Che se la sbrighi lei e lo informi». «Ha interrogato qualcuno?».

      Dall’alto della scala, si sentì la voce di Pietrosanto, stranamente lamentosa, quasi venata di pianto: «Ha interrogato me. Voleva sapere perché non avevo chiuso la porta del cortile, ieri sera… Ma io l’avevo chiusa o per lo meno mi ero informato, nell’uscire, se era chiusa. Di solito la chiude il signor Chirico, quando fa il giro delle stanze, per vedere se tutte le luci sono spente…».

      «A proposito, quando viene questo vostro signor Chirico? Ha il telefono a casa? Lei gli ha telefonato?».

      «Io? Nooo!… Oh! Come facevo a dirgli per telefono che c’era un cadavere in negozio?».

      «Beh! Poteva dirgli che era necessaria la sua presenza e null’altro…».

      «Già. Non ci ho pensato. Che vuole? Lei sarà abituato ai cadaveri, lei! Io no e ne sono ancora sconvolto… Ma che le pare uno scherzo da niente questo qui?…».

      Continuava a parlare dal sommo della scala e De Vincenzi lo guardava dal basso, senza riuscire a trattenere un sorriso divertito. Era comico, povero uomo e non si poteva davvero fargliene colpa! Teneva ancora il cappello in testa e certo s’era rifugiato là in alto, per aver l’aria di far qualcosa.

      «Che cosa fa, lassù? Venga qui…».

      «Subito, signor commissario».

      E scese così in fretta, che a momenti cadeva.

      «Stia attento!».

      «Oh! Che crede che sia finita per me? Quando le disgrazie cominciano…».

      «Si metta a sedere… Anzi, no. Venga di là con me…».

      L’altro ebbe un sussulto.

      «Ha paura?».

      «Paura? No!».

      Ma s’era sbiancato. De Vincenzi lo guardava con simpatia. Un uomo intelligente doveva essere e colto. Si vedeva che in quel negozio, tra quei libri polverosi, accatastati in disordine, rovesciati per terra, gettati dovunque, lui ci pativa, abituato al suo nego zio d’un tempo, dove si davano convegno i letterati e gli studiosi più noti, con le loro mogli e le loro amanti in pelliccia.

      «Paura, no. Non credo. Ma certo mi fa impressione andar di là e non so neppure se riuscirò a rimanere nella libreria, dopo quanto è successo… È vero che non vedo come mia moglie e io mangeremmo, se me ne andassi!…».

      «Ebbene, rimanga pure qui. Andrò io solo».

      E Pietrosanto, senza farselo ripetere, chiuse la scala, e tornò a sedere davanti alle schede del catalogo.

      De Vincenzi infilò il corridoio, e si trovò ancora nel mezzo di quelle tre stanzette.

      Il cadavere, adesso, non c’era più. Per terra si vedeva la striscia lasciata sulla polvere dal corpo trascinato. De Vincenzi si chinò a osservare quella traccia e notò subito una particolarità strana: la striscia non era unita, continua, come senza dubbio sarebbe apparsa, se fosse stato il corpo del morto a segnarla. In due punti essa s’interrompeva e il pavimento appariva coperto di polvere non toccata.

      Osservò meglio e vide che era proprio così: in quei due punti, il corpo non aveva strisciato sulla polvere. Alzò il capo e si guardò attorno. Era perplesso. Se avessero trascinato un corpo inerte, non era assolutamente possibile che esso avesse lasciato dietro di sé tracce di quella sorta. De Vincenzi guardò in terra, come se volesse trovarvi la spiegazione del mistero. Libri, riviste, giornali, qualche foglio di carta da imballo, funicelle, chiodi e polvere… Sotto un bancone, addossato al muro della stanzetta di destra, vide un sacco. Senza saper chiaramente neppur lui perché lo facesse, si chinò a osservarlo, lo sollevò, prendendolo con due dita. Nella parte che toccava il pavimento era sporco di polvere, ma sporco in una forma strana, come se se ne fossero serviti di proposito per raccoglier la polvere dal terreno. Il commissario andò verso il corridoio e chiamò: «Giovanni!».

      Di corsa, muovendosi a quel suo modo disordinato di ragazzo cresciuto in fretta, Giovanni arrivò e, quando De Vincenzi gli ebbe indicato il sacco, rispose subito: «No, non era lì. È il sacco che serve a trasportar via la cartaccia. Non me ne sono mai servito per levar la polvere».

      «E dov’era?».

      «Nella stanza di fondo, sopra una cassa».

      «Ho capito» fece De Vincenzi.

      E aveva capito, infatti, che quello doveva essere un elemento essenziale alla spiegazione del mistero.

      Il delinquente con cui aveva da fare era d’indiscutibile abilità.

      Tornò in negozio e chiese a Pietrosanto: «Lei è sicuro che il senatore Magni non fosse un frequentatore del negozio, un cliente, insomma?».

      «Sicurissimo. Sono qui da due anni e non l’ho mai veduto entrare da quella porta. Ho detto di conoscerlo, perché era una figura nota a Milano… Ma adesso sono certo di non avergli mai parlato……

      «Uhm!» fece il commissario e sedette sul bancone tra i libri.

      Era assorto.

      Pietrosanto lo fissò trasecolato: non aveva ancora veduto nessuno sedersi sul bancone sacro ai libri.

      De Vincenzi faceva il punto.

      Un delinquente di gran classe, indubbiamente! Uno spirito diabolico, acuto e non privo di eleganza mentale. Tutti i particolari di quel delitto si presentavano con una linea prestabilita e meditata.

      Fissò questi particolari, ricapitolandoli nel cervello, perché lui non prendeva mai appunti scritti.

      — Al cadavere mancava il cappello; — nulla gli era stato rubato; — la striscia sulla polvere presentava due soluzioni di continuità; — i ferri chirurgici e il camice del professore (quegli oggetti appartenevano poi realmente al senatore Magni? Ecco un punto da assodare) erano stati lasciati sui gradini di una chiesa, ravvolti in un giornale con la lettera: «Prego consegnare alla Questura»; — il professore praticava lo spiritismo; — il professore aveva una o più amanti.

      Certo, altri fatti gli


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