Le due tigri. Emilio Salgari

Le due tigri - Emilio Salgari


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invece a Delhi, ad Agra, a Benares ed altrove.

      Dalle splendide palazzine inglesi, dai palazzi immensi, dai negozi sfolgoranti di luce, dalle chiese anglicane ai teatri, agli squares della città bianca si passa senza transizione alle capanne miserabili, alle pagode semi-crollanti, ai bazar oscuri e fetenti, alle viuzze luride e fangose.

      Tutto è rovina, sporcizia, miseria, nell’antica città indiana. Casupole o capanne, parte di mattoni mal connessi, parte costruite con poche tavole inchiodate alla meglio, che non hanno quasi mai piú d’un piano, si seguono per parecchi chilometri, senza ordine, senza regola alcuna, divise solo da stradicciuole che sono pericolose a percorrersi di sera, nonostante la continua vigilanza dei policeman bianchi e indigeni.

      Erano le otto di sera, quando Kammamuri, Yanez, Sandokan e Sambigliong sbarcarono sul quai della città nera, ingombro in quel momento di barche di pescatori e di pinasse provenienti dall’alto corso del Gange.

      Quantunque fosse un po’ tardi, una certa animazione regnava sulle gettate.

      Dalle pinasse sbarcarono numerosi indiani, accorsi probabilmente dai villaggi vicini per assistere alla festa in onore di Darma-Ragia, la quale doveva già essere cominciata, udendosi in lontananza un frastuono assordante di tam-tam, di tamburi di sitar e di mirdeng.

      – Arriveremo in tempo per assistere alla danza del fuoco, – disse Kammamuri a Sandokan. – Vi saranno molti piedi scottati questa sera, perché è l’ultima e quindi la piú importante.

      Si unirono alla folla sbarcata dalle pinasse che si rovesciava attraverso le viuzze fangose della città, a malapena illuminate da mezze noci di cocco sospese alle finestre delle case, quasi ricolme di olio in cui nuotava uno stoppino.

      Lasciandosi portare da quell’onda di curiosi, dopo venti minuti si trovarono in una vasta piazza, illuminata da un gran numero di aste di ferro piene di cotone imbevuto di materie resinose, e chiusa da un lato da una vecchia pagoda d’antico stile indiano, che s’innalzava in forma di piramide tronca con colonnati, teste d’elefanti, divinità mostruose e animali anneriti dal tempo.

      La piazza era gremita di bramini, di babú, ossia di borghesi, di sudra, di battellieri e di contadini, però nel mezzo vi era uno spazio tenuto vuoto da alcuni drappelli di cipayes, dove ardevano immensi bracieri che proiettavano intorno un calore piú che torrido.

      – Che cosa si cucinerà su quei bracieri? – chiese Sandokan, che s’apriva faticosamente il passo fra quella folla di curiosi e di fanatici.

      – Dei piedi, signore, – rispose Kammamuri.

      – Quali piedi? Di chi? Di elefanti forse? Ho udito raccontare che sono squisiti.

      – Umani, capitano, – disse il maharatto. – Vedrete che spettacolo; ma giacché non è ancora cominciato spingiamoci verso la pagoda, se potremo giungervi: Quegli che cerchiamo possiamo trovarlo colà.

      Facendo forza di gomiti, poterono non senza fatica giungere alla base della gradinata che conduceva alla pagoda, ma colà si videro arrestati da una vera muraglia umana che non era possibile sfondare.

      Essendo però la terrazza che si estendeva dinanzi al tempio abbastanza elevata, potevano assistere egualmente alla cerimonia che si svolgeva dinanzi alla statua della dea, collocata davanti alla porta.

      Tutte le pagode indiane hanno due statue che rappresentano la stessa divinità a cui il tempio è stato dedicato: una collocata all’esterno a cui il popolo può presentare le sue offerte; l’altra interna a cui gli adoratori possono egualmente far pervenire i loro doni per mezzo dei sacerdoti, i quali si sono riserbato il diritto di poterla avvicinare da soli.

      Ad essi spetta il lavarla col latte di vacca, o coll’olio di cocco, l’ornarla di fiori e farle unzioni durante le grandi cerimonie.

      Il popolo dove accontentarsi di guardare l’idolo interno da lontano, felice di poter avere almeno un petalo dei fiori che l’ornano e che i sacerdoti distribuiscono terminata la festa.

      Intorno alle due statue di Darma-Ragia e di Drobidé sua moglie, erano state accese un gran numero di fiaccole, mentre bande di suonatori percuotevano con furore tamburi e tamburelli e laceravano gli orecchi coi suoni acutissimi dei gong e molte coppie di bajadere intrecciavano danze, facendo volteggiare in aria, con grazia, i loro veli trapunti in oro o in argento.

      Kammamuri e i suoi compagni si fermarono alcuni minuti gettando qua e là degli sguardi in mezzo alla folla, colla speranza di scoprire il vecchio manti poi, disperando di poterlo scovare fra quel mare di teste agitantisi burrascosamente, retrocessero verso il centro della piazza.

      – Cerchiamo un buon posto presso i fuochi, – aveva detto il maharatto a Sandokan.

      – Sono certo che troveremo il vecchio stregone nel corteo della dea Kalí.

      Se è veramente un thug, come abbiamo motivo di credere, vi prenderà parte.

      – Non è la festa di Darma-Ragia? – chiese Yanez.

      – È vero, ma essendo la pagoda dedicata a Kalí, porteranno in giro anche la mostruosa statua di quella sanguinaria divinità.

      Spingendo poderosamente a destra e a sinistra, i quattro uomini poterono finalmente raggiungere il centro della piazza, il quale era coperto per un tratto considerevole di tizzoni ardenti, che un nuvolo d’indiani ravvivava servendosi di ventagli di foglie di palma.

      – Sono per gli adoratori di Darma-Ragia queste brace? – chiese Yanez.

      – Sí e vedrete come quei fanatici vi correranno sopra.

      – Bel gusto ad abbrustolirsi le piante dei piedi.

      – Ma guadagneranno il cailasson.

      – Ossia? – chiese Sandokan.

      – Il paradiso, signore.

      – Lo lascio volentieri a loro, – rispose il pirata, sorridendo – preferisco conservare intatti i miei piedi.

      Un fracasso indiavolato e un vivo ondeggiamento della folla li avvertí che la processione usciva in quel momento dalla moschea, per condurre alla prova del fuoco i devoti.

      Un profondo squarcio si era prodotto fra quella massa enorme di curiosi e di adoratori e una nuvola di danzatrici vi si era cacciata dentro seguita da drappelli di suonatori e di portatori di torce.

      – Tenetevi tutti presso di me, – aveva detto Kammamuri, – soprattutto non perdiamo il posto.

      Quantunque fossero stati dapprima travolti da quel movimento disordinato, erano riusciti a rimettersi in prima fila, presso il margine dell’immenso braciere.

      La processione scese la gradinata, e s’avanzò verso il centro della piazza sempre preceduta dalle bajadere e dai suonatori seguita da stormi di bramini salmodianti lodi in onore di Darma-Ragia e di Drobidè.

      Seguivano le due statue delle divinità, l’una di pietra e l’altra di rame dorato, collocate su una specie di palanchino portato da parecchie dozzine di fedeli; poi l’orribile statua della dea Kalí, la protettrice della pagoda, in pietra azzurra e coperta di fiori.

      La moglie del feroce Siva, il dio sterminatore, raffigurava come una donna negra con quattro braccia, di cui una brandiva una specie di daga e un’altra reggeva una testa mozza.

      Una collana di teschi umani le scendeva fino ai piedi e una cintura di mani tagliate le stringeva i fianchi, mentre dalla bocca sporgeva la lingua che gli artisti indiani avevano dipinto in rosso onde ottenere un maggior effetto.

      Dinanzi le stava un gigante coricato ai suoi piedi ed ai fianchi due figure di donna, smunte e smilze, coperte solo da una lunga capigliatura che scendeva fino alle loro ginocchia.

      Una reggeva un cranio umano che teneva accostato alle labbra come se vi bevesse dentro, mentre un corvo pareva che attendesse, col becco aperto, qualche goccia di sangue, l’altra mordeva ferocemente un braccio umano e una volpe la guardava come se reclamasse la sua parte.

      – È quella la dea dei Thugs? – chiese Sandokan, sottovoce.

      – Sí, capitano, – rispose Kammamuri.

      – Non


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