Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo
i forestieri in Italia piuttosto che pensare alla preservazione della comune madre. Quali effetti ne siano risultati e per loro, e per tutti, il mondo se gli ha veduti, e gl'Italiani non piangeran mai tanto, che non resti loro a piangere molto più.
Tornando ora al proposito nostro, non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio, nè l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto, certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme rispetto a stato sì angusto, con costanza tanto mirabile, che pochi esempi si leggono nelle storie degni di ugual commendazione.
Chiamano paludi Pontine una pianura di centottanta miglia quadrate, che si distende in lunghezza fino a ventisette, ed in larghezza fino a otto, più o meno, secondo i luoghi. Ella è terminata a greco dalle montagne della Spina, a piè delle quali sorgono le città di Terracina, Piperno, e Sezze; a maestro dalle colline di Velletri, e dai boschi della Cisterna, a libeccio; a scirocco, ed ad ostro dal mare.
Erano anticamente questi luoghi, e prima che diventassero tanto infami per aere pestilenziale, colti e salubri. Solo un piccolo padule vi si osservava vicino a Terracina. Fecevi nel quinto secolo di Roma il censore Appio la magnifica via, che ancora si chiama col suo nome. Ma spopolate le provincie per l'atrocità delle guerre, e fatti i terreni incolti, le acque stagnanti soprabbondarono, e sopraffecero ogni cosa. Poi Cetego consolo di nuovo prosciugando, le risanò. Ma le guerre civili le tornarono a peggior condizione; tanto che ai tempi d'Augusto la via Appia appariva sola in mezzo di quel vasto marese. Tentò Augusto, tentarono gl'imperadori suoi successori di ridurlo a sanità, e fecerlo; ma i Barbari, che sopravvennero, spensero, con tutti gli altri, anche questo segno dell'uman culto, e dell'opere d'ingegno. Così quelle pingui e vaste terre impaludate si rimasero fino ai tempi più moderni, in cui i pontefici romani Leone Primo, e Sisto Secondo applicarono l'animo a volerle prosciugare. Aprì il primo il gran portatore della torre di Badino, aprì il secondo il fiume Sisto, ch'è un canale artefatto, che attraversa le paludi per la lunghezza loro, ed è destinato a raccorre tutte le acque superiori per condurle al mare. Ma nè l'uno, nè l'altro di questi pontefici regnarono tempo, che bastasse a compir l'impresa. Sgomentaronsene i successori, o fecero tentativi inutili. Clemente XIII volle dare sfogo all'acque pel rio Martino, ma non potè, ritraendolo l'enormità della spesa. Finalmente non così tosto fu assunto al pontificato Pio VI, che pensò al prosciugamento delle Pontine. Quattro fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa, e la Teppia, non trovando sfogo al mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento. Rapini, ingegnere di grido, proposto da Pio alle opere, cavata la linea Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico fiume Sisto, alveò l'Uffente, e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI.
Non dimostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di S. Pietro; opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile della basilica di Michelagnolo. Dolsersi anche non pochi, che per fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato, che si atterrasse l'antico tempio di Venere, al quale Michelagnolo aveva avuto tanto rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere, come aveva fatto già fin quando esercitava l'ufficio di auditore del Camerlingo, a papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso Museo, il quale poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione, fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue, busti, bassirilievi, ed altre anticaglie di gran pregio, alle quali non mancava mai il motto: dato dalla munificenza di Pio Sesto; vanità per certo molto innocente. Come nobile fu l'intento suo nel fondar il Museo, così nobile del pari fu il suo consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di scritture, e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a Ludovico Mirri, e quanto ai comenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle opere più perfette, che in questo genere siano.
Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno: così visitata dai più potenti principi d'Europa lasciava in loro riverenza, e maraviglia, così la magnificenza che cresceva, suppliva alla fede che mancava; così i popoli mossi da sì sontuosi apparati non rimettevano di quella venerazione, che avevano sempre avuto verso la sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che parlavano tanta umanità, poche radici avevano messo in Roma: non che i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo a certi effetti cagioni non vere, troppo in se stessi si compiacquero di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a se medesima conforme, che mancate l'armi, comandò con la fede, mancata la fede, comandò con le pompe, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza, che per ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale.
Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per benefizio dei principi, o per ammaestramento dei buoni scrittori, le vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei popoli, e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in tutte le altre, o rovine nella casa regnante, o rivoluzioni di popoli. Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà, prima e principal cagione essere la potestà assoluta del principe, giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni dell'ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione di un potente, anche fortunata, che render se ed il paese suddito o dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di Braganza, avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse, che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome, che potessero, non che distruggere, emulare la potenza dei principi.
Da questo, e dagli eserciti molto grossi, nacque la maravigliosa stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in quello stato una opinione generale stabile, che da generazione in generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante alle repubbliche, nelle quali, se cangiano gli uomini, non cangiano le massime, nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano.
Ciò non ostante alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento, si ravvisavano negli stati del re di Sardegna, massime circa la ecclesiastica disciplina. Imperciocchè tolte con providissimo consiglio dal re Vittorio Amedeo II le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studi di ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana a diffondersi. I tre bibliotecari dell'università, Pasini, Berta, e Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle opere scritte dai difensori di quelle dottrine: Vaselli ne arricchì la libreria del re.
Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo generoso, di vivo ingegno, e di non ordinaria perizia nelle faccende di stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di misura: il che rovinò le finanze, che tanto fiorivano ai tempi di Carlo Emanuele suo padre; sparse largamente nella nazione la voglia delle battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili, soli ammessi a capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo re di Prussia. Certamente se immortali lodi si debbono a Federigo per aver difeso il suo reame contra tutta l'Europa, gran danno ancora le fece per avervi introdotto coll'esemplo suo un eccessivo umor soldatesco, ed aver messo su eserciti smisurati. Gli altri potentati o per fantastica imitazione, o per dura necessità furono costretti a far lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia, che dilatò questa peste ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte, che la portò agli estremi, ed altro non mancherebbe alla misera Europa per aver la compita barbarie, se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti, coi combattenti anche i vecchi, le donne, ed i fanciulli. Certo nè libertà alcuna, nè ordine buono di finanza, nè civiltà durevole potrà mai essere in Europa, se i principi non