Il bacio della contessa Savina. Caccianiga Antonio

Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio


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bene a quella famiglia.

      Dopo messa andammo a far visita in Canonica, e venni presentato a don Vincenzo Liserio parroco del villaggio, al quale consegnai la lettera di mio zio. M'accolse cortesemente, come maestro e nipote d'un canonico, ma con una certa solennità, da uomo che misura le parole per non compromettere l'avvenire, guardandomi sott'occhio per istudiare la fisonomia.

      Mi fece tutte quelle offerte generiche che sono dell'occasione, ma non incoraggiano a recare disturbi, perchè si capisce subito ciò che valgono.

      Ritornati in casa Bruni, entrammo nel salotto, e dopo breve conversazione in famiglia, la Menica chiamò la signora Giovanna; e Martino si presentò sulla porta.

      – Che cosa vuoi? – gli chiese Nicola.

      – C'è qui Giacomo che aspetta i vostri ordini… fino da questa mattina.

      – Giacomo, chi?

      – Giacomo, fratello di Perina, moglie di Pietro cognato di Battista… quello che ha un figlio soldato… e un altro che ha emigrato in Germania il giorno che si andava a…

      – Non lo conosco.

      – Non si ricorda, che ieri sera mi ha ordinato di farlo venire con degli uccelli?

      – Ah! è l'uccellatore?

      – Sicuro.

      Il signor Nicola alzò i pugni stretti, ed aveva un volto da far paura. L'Agata, che entrava in quel momento, dando un colpo d'occhio a suo padre, gli fece mutare l'espressione della collera in uno sberleffo. Uscì precipitoso dando uno spintone violento alla porta. Martino era svignato. Il signor Nicola aveva un carattere impetuoso, e sul primo momento avrebbe schiacciato un uomo come una mosca; ma per buona fortuna il suo furore non durava che due minuti. Martino, che conosceva bene il padrone, quando vedeva negli occhi di lui i primi lampi che annunziavano l'uragano, spariva sul momento, e restava assente per cinque minuti. Il padrone si gettava contro i muri, le porte, le sedie e quanto gli stava davanti, e slanciava dei calci, che quegli oggetti inanimati non sentivano… e il domestico non li sentiva nemmeno… – E poi dicevano che era un imbecille! Allora l'Agata mi spiegò che il signor Nicola, nella sera antecedente, avendo ordinati degli uccelli per il pranzo, l'uccellatore li aveva portati per tempo; ma Martino lo tenne varie ore nella stalla ad attendere gli ordini del padrone che era uscito con me. Intanto le signore aspettavano con impazienza l'arrivo del futuro arrosto, il quale aspettava per essere apparecchiato chi non doveva arrivare che per mangiarlo.

      Si dovette ritardare il pranzo d'un'ora, richiamare il fuggitivo che almeno venisse a spennare il corpo del suo delitto, e mentre il signor Nicola e sua moglie erano occupati in altre faccende, l'Agata venne a farmi compagnia nel salotto. Mi domandò con interesse molte cose di Milano, ed io le descrissi le feste, i corsi, gli spettacoli della città, l'eleganza delle signore, il lusso delle carrozze…

      Essa mostrò di conoscere non solo i principali monumenti, ma bensì la vita intellettuale ed artistica, e mi sorprendeva assai che una fanciulla che si occupava de' suoi polli, parlasse di cose elevate con non volgare giudizio. Mi disse che i suoi genitori l'avevano condotta a Milano, quando era uscita dal collegio di Como, ove era stata in educazione. Io arrossivo pensando d'essere stato a Como senza vederlo. Poi per farmi passare il tempo aspettando l'ora del pranzo mi condusse a visitare l'orto e il giardino. Nell'orto la mia ignoranza fece la sua prima comparsa. Io non distingueva le piante delle patate dai pomidoro, le carote dal prezzemolo, confondeva il rosmarino colla lavanda, le zucche coi poponi. Essa rideva di cuore, e mi diceva:

      – Eppure a Milano si trovano ogni sorta d'erbaggi; ne vidi di bellissimi sul mercato.

      – È vero, ma io non li conosco che quando li vedo cotti…

      Allora mi svelò l'estetica degli erbaggi facendomi osservare minutamente l'eleganza e la varietà dei loro portamenti, l'increspatura, i frastagli, le tinte differenti delle foglie, la bizzarria delle forme, la singolarità dei profumi; mi faceva odorare il timo, la salvia, il ramerino, il finocchio, il cerfoglio, il targone, la rucola, la maggiorana, la menta, e mi diceva: – Vedete la grande varietà di aromi indigeni coi quali possiamo condire le vivande senza il soccorso delle droghe che andiamo a prendere alle Indie. Vi prego di considerare la grazia d'un fiore di borragine, ma guardate se può darsi un turchino più limpido, un bianco più puro, un nero più spiccato: e il frutto del peperone, e la leggerezza dello sparagio quando si adorna delle sue sementi rosse come coralli. Guardate le foglie glabre e frastagliate dei carcioffi come sono ornamentali!.. e il frutto? non ha esso servito mille volte alle arti ed alle industrie? Le zucche e i meloni non sono forse piante e frutti magnifici, e i fiori di tutti i legumi non sono forse i più vezzosi?.. Guardate i ceci, i fagiuoli, i piselli! Credetemi, signore, chi non vede la bellezza della natura in un orto, non la vede intieramente nemmeno sul lago di Como… Nella natura come nelle arti non basta apprezzare l'insieme, ma bisogna saper conoscere anche i pregi d'ogni singola parte. Chi non ama che il frastuono d'una sinfonia, e non gusta un motivo melodico, non può dire d'intendere la musica; chi non ammira che la sublimità delle montagne e non ha mai contemplato il fiorellino che cresce sui loro crepacci, non conosce la natura. Le scene grandiose le vedono tutti, la musica rumorosa colpisce tutte le orecchie, ma le anime delicate soltanto sanno scoprire il bello nelle cose minute, e godere le delizie della natura e dell'arte davanti gli oggetti impercettibili agli sguardi volgari.

      Rimasi maravigliato de' suoi discorsi!.. Passammo in giardino, e quivi mi rinnovò la lezione, mostrandomi tutto quello che io ignorava delle bellezze delle piante. Quivi, credendo opportuno di svelare finalmente qualche cognizione, le dissi:

      – Sono sicuro che conoscete il linguaggio dei fiori.

      – Lo conosco, – mi rispose, – ma lo trovo puerile.

      – E perchè?

      – Perchè i fiori parlano un linguaggio che si intende da chi ama la natura e vive nella sua intimità, senza bisogno di chiedere le loro espressioni ad emblemi convenzionali. Un fiore qualunque, il più modesto fiore del prato, parla al nostro cuore se ci rammenta un istante memorabile della nostra esistenza, un paese, un amico, una parola, se la sua vista risveglia la memoria assopita d'una persona lontana, o d'un giorno felice.

      Tali discorsi portavano naturalmente il mio pensiero al mazzetto gettato alla contessa Savina, e pensavo: chi sa, se vedendo una rosa, delle violette e degli eliotropi, essa rivolgerà la mente al povero esule che non vede al mondo che lei!.. e camminavo mesto e silenzioso per quel giardino, seguito dall'Agata; avevamo l'aspetto di due ombre che vanno vagando pei Campi Elisi. Quella conversazione e que' fiori che ci stavano d'intorno m'aveano rapito in un'estasi poetica, quando Martino venne ad annunziarci che il pranzo era servito. A questo mondo tutto finisce in prosa!

      Durante il desinare venne in campo il discorso del mio prossimo sgombero e del sistema di vita che mi sarebbe convenuto. Il signor Nicola accennò al consiglio che mi venne dato dal vecchio maestro, di accomodarmi coll'organista pel vitto, e rivolto all'Agata le disse:

      – Che te ne pare?

      – Il vecchio maestro, – essa rispose, – si trovava in condizioni diverse; la defunta sua moglie era sorella di Tobia l'organista, i legami di famiglia facilitavano le loro relazioni; ma non so se ciò che conveniva a due vecchi cognati di Valtellina possa offrire gli stessi vantaggi ad un giovane milanese avvezzo ad altro sistema. Poi il signor Daniele non conosce Tobia, non l'ha ancora veduto… è un buon diavolo, ma originale… ed ha la lingua un po' troppo lunga. I due cognati andavano d'accordo in molti punti, per esempio nel giudicare l'ordine e la nettezza come cose di lusso; ne sia prova l'abitudine del maestro di farsi servire dagli scolari, che gli mettevano la casa a soqquadro e ne facevano un letamaio.

      – Allora, – soggiungeva il signor Nicola, – bisogna pensare ad altro. Ci permettete, non è vero, Daniele, di trattarvi in amicizia e di occuparci dei vostri affari?..

      – È il massimo favore che possiate farmi…

      – Orbene, che ne pensi, Agata?

      – Mi pare, – ella soggiunse, – che si potrebbe trovare una buona donna di servizio pel maestro, che gli tenesse in ordine la casa, e che sapesse fargli da pranzo e il bucato. In fine dei conti la spesa sarà eguale,


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