Il bacio della contessa Savina. Caccianiga Antonio

Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio


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dagli alberi mi fece voltare la testa. Un cane nero mi guardava con occhi pietosi dimenando la coda. L'osservai dapprima con diffidenza, poi con simpatia. Egli s'avvide del cambiamento, e mi si avvicinò lentamente, quasi interrogandomi sulle mie intenzioni. Lo accarezzai, ed egli appoggiando le sue gambe anteriori sui miei ginocchi, allungò il muso e si mise a lambirmi il viso, poi seduto sulle gambe posteriori continuava a guardarmi. Allora pensando che forse il suo padrone lo cercava, m'alzai e ripresi la strada, ed egli mi seguì da vicino. Guardai lontano a diritta ed a sinistra, sui dirupi del monte e sul pendìo della vallata, e non vidi nessuno. Allora, additandogli il cammino verso Colico, gli dissi:

      – Va', cerca il padrone, va' via.

      Il cane, vedendo che lo minacciavo per farlo partire, si gettò a terra sul dorso, colle gambe in aria, guardandomi con uno sguardo pietoso.

      Dunque, dissi fra me, se non vuole andare verso Colico, è segno che il suo padrone ha preso la direzione di Sondrio; dovendo io fare la stessa strada, lo troveremo; e ripresi il viaggio. Il cane mi seguiva tranquillamente. Ad una svolta della via m'incontrai in uno stradino che acciottolava la strada e gli chiesi:

      – Conoscete questo cane?

      Egli lo guardò con indifferenza e mi rispose:

      – Non l'ho mai veduto.

      Allora mi decisi di abbandonarlo sulla via per non distrarlo dalla ricerca del suo padrone, e presi un sentiero che salendo in fianco alla strada s'inerpicava sulla montagna; ma egli mi seguì tranquillamente; mi arrestai a contemplarlo, e pensai: esso è solo al mondo, povero cane, e il suo istinto lo spinge a trovarsi un compagno. Era più brutto che bello, ma aveva due occhi umani pieni di bontà, e guardandomi con tenerezza pareva mi dicesse:

      – Siamo soli tutti e due, non mi abbandonate, possiamo vivere in compagnia.

      Mi ricordai d'aver udito varie volte a raccontare che due uomini essendosi incontrati per caso, ed entrati in intimità senza conoscersi, ne derivarono poi gravi disordini, ruberie e disgrazie; ma non avendo mai udito che simili conseguenze fossero derivate dall'intimità dell'uomo col cane, mi decisi di conservare il mio compagno, almeno fino a che avesse ritrovato il padrone. E supponendo possibile che fosse digiuno da varie ore, m'arrestai davanti l'osteria di un villaggio che aveva una baracca rizzata sulla via, coperta di paglia, con sotto al rustico tetto un tavolo e sedili di rozze assi inchiodate sopra quattro pali. Domandai pane, vino e dell'acqua.

      Povera bestia, con quale ingordigia addentava i primi bocconi! Mangiammo insieme pacificamente, poi gli diedi dell'acqua nel piatto, e bevette con avidità. La più viva riconoscenza brillava nel suo occhio, nei suoi movimenti, nel suo dimenar di coda.

      Rifocillati per bene riprendemmo la via, e passammo l'intiera giornata, camminando per la strada maestra, con alquante diversioni per boschi e frane ove mi attirava o il bisogno di riposo, o il desiderio di osservare una cascata, o un punto di vista pittoresco. All'ora del tramonto giungemmo a Sondrio, ove avevo deciso di passare la notte. Entrai in un albergo ove una folla di gente ingombrava il pianterreno e il cortile, e in quella confusione non vidi più il cane. Pensai che avesse trovato il suo padrone, e ne provai vero rammarico; – tanto è facile a risvegliarsi l'affetto nelle anime solitarie, che sentono il bisogno di un compagno nella vita.

      Il cameriere mi serviva da cena nell'angolo d'una stanza, quando vidi il cane nella sala vicina, inquieto ed ansante, che andava fiutando la terra percorrendo il cammino che io aveva percorso. Esso cercava di me, mi raggiunse poco dopo, e non potendo frenare la sua letizia mi saltò addosso leccandomi le mani, e mugolando con acuti guaiti che esprimevano il dolore d'avermi smarrito, e la gioia immensa d'avermi finalmente ritrovato. Confesso la mia debolezza: la sua perdita mi aveva fortemente attristato, il suo ritorno mi consolava come una felice ventura. Io sentiva di non essere più solo al mondo, poichè avevo guadagnato l'amicizia d'un cane.

      Dopo d'aver cenato in compagnia, dormimmo nello stesso letto, essendosi egli coricato ai miei piedi, come se fosse una vecchia abitudine.

      Risvegliandomi al mattino, osservai ch'egli non dormiva più, ma mi guardava immobile, per non disturbare il mio sonno. Quando vide che mi mossi venne a darmi un saluto affettuoso. Io mi vestii e suonai il campanello per chiedere il conto. Ma quando udì il cameriere che batteva alla porta, il cane si mise ad abbaiare come un disperato, volendosi anche dimostrare capace di difendermi.

      Dopo una piccola refezione siamo usciti da Sondrio entrando in quella strada pittoresca fiancheggiata dall'Adda, che conduce a Tirano. Questa seconda giornata fu più felice della prima, a motivo della compagnia del mio cane. Egli andava e veniva allegramente per la via. Talvolta saliva sopra un sasso, ed osservava con attenzione gli oggetti sottoposti, poi ritornava indietro facendomi ogni sorta di dimostrazioni affettuose, e si vedeva chiaramente ch'egli era contento al pari di me d'aver trovato un amico.

      Una volta adottato il mio compagno, sentii la necessità di mettergli un nome, e cercai lungamente. Sulle prime non mi sarei immaginato la difficoltà che s'incontra a trovare il nome d'un cane, quando si voglia evitare in pari tempo la volgarità e la pretesa. Per un cristiano il lunario ci aiuta, e poi il nome dell'uomo non indica mai nulla, nè si trova inconveniente che si chiami Candido un furbo, Amadio un ateo, Leone un timido, Adone uno sciancato, Fedele un ladro e Felice un ministro. L'uomo si classifica dalla sua condotta, dalla moralità, dall'intelligenza, da tutti gli atti della vita, il suo nome è un caso; ma per il cane non è così. Provate a chiamar Lesbino un molosso, o Turco il cagnolino d'una signora. In esitanza mi sedetti sulle rive dell'Adda, e chiesi al mio cane:

      – Come devo chiamarti, caro amico?.. Egli mi guardava tranquillamente. – Fido?.. è troppo comune. Falco?.. non significa niente. – Azor?.. non mi piace. Egli stesso si mostrava insensibile a questi nomi. Vorrei un nome che ci ricordasse il nostro felice incontro sulle rive del torrente Bitto. Se ti chiamassi Bitto?.. Bitto… Bitto, gli dissi con voce carezzevole, vuoi che ti chiami il mio Bitto?..

      Egli scodinzolava in segno di assentimento, io gli feci una carezza affettuosa, egli venne a lambirmi la mano, e così gli diedi, ed egli accettò cordialmente il nome di Bitto.

      Quel giorno pranzammo lietamente a Tirano, e usciti dal paese, prendemmo un'oretta di riposo sull'erba all'ombra d'antiche piante sui confini d'un bosco.

      Il villaggio di X** al quale io era diretto trovandosi fra Tirano e Bormio, mi mancavano poche miglia per arrivarvi, ed avevo deciso di giungervi sull'imbrunire per evitare la noia dei curiosi che mi avrebbero molestato coi loro sguardi indiscreti.

      Ripresa la via, e sentendo avvicinarsi il luogo destinato al mio esilio, io provava quell'inquietudine che nasce dall'ignoto, e mi doleva d'essere al termine di un viaggio pittoresco. Colla sola compagnia del mio cane e dei miei pensieri non mi sarei stancato di percorrere il mondo. Ma ogni viaggio che incomincia deve in qualche maniera finire. Pur troppo è così, ed ogni viaggio ci rammenta la vita umana. Una volta incominciato il pellegrinaggio, ogni ora che passa ci avvicina alla meta…

      Con tali pensieri malinconici vidi per la prima volta da lontano il campanile acuminato, le casupole e le capanne di X**. Entrai nel villaggio quando il sole scendeva dietro i monti tingendo in rosa le nuvolette spezzate.

      Le mandre rientravano dai pascoli salutando la sera con lunghi muggiti. I passeri si raccoglievano sugli alberi cinguettando, e raccontandosi i loro pettegolezzi del giorno.

      I camini fumavano, le famiglie si raccoglievano per la cena. Tirai fuori dal mio portafogli la lettera di raccomandazione di mio zio all'egregio signor Nicola Bruni, e domandai della sua dimora al primo venuto.

      – È quel palazzino bianco, isolato, sulla collina a diritta con molte adiacenze e varie cataste di legna intorno.

      – Vi ringrazio.

      Presi la strada indicata sulla salita, e giunto all'uscio picchiai. Un ragazzotto mi aperse la porta.

      – È in casa il signor Nicola Bruni?

      – Che cosa dice?

      – Se il signor Nicola Bruni è in casa?

      – Signor no… non è in casa… se fosse in casa non sarebbe in cortile… ma è in cortile…

      Una voce tonante interruppe il dialogo.

      – Imbecille…


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