La plebe, parte IV. Bersezio Vittorio
orrore, si trasse indietro sui cuscini più che potè, allungando innanzi le braccia come per respingere un'orribile visione ed esclamò con accento pieno di ribrezzo, di sdegno, d'odio:
– Via, via, via!.. Tu qui!.. Tu osi venir qui!..
Il fratello d'Aurora si ritrasse; uscì di quella stanza con infinita oppressura dell'anima.
La misera diede nuovamente in ismanie: ma il medico che le stava al fianco trovò pure le magiche parole con cui ricondurla alla calma, infonderle forza e coraggio.
– Se la fa di questa guisa, le disse, la si uccide.
Aurora lo guardò con una certa espressione che significava chiaramente: – E che m'importa? Se gli è questo appunto ch'io voglio!
Ma il medico lesto a soggiungere:
– E la sua morte sarà quella eziandio della innocente creaturina che porta nel suo seno. Ella ha l'obbligo, il sacrosanto obbligo di conservarsi per suo figlio.
Aurora non rispose parola: ma si calmò di presente; stette lungo tempo sopra pensiero, muta, immobile, appena se con sembianza di viva, tanto era pallida, solo che tratto tratto due grosse lagrime le colavano giù delle guancie. Quando il medico tornò a vederla, ella gli disse piano:
– Ha ragione. Debbo vivere per mio figlio: e lo voglio… Mi faccia guarire.
Il medico si pose con tutta la sua scienza e con tutto il suo zelo a lottare contro la morte che pareva aver già posto il suo artiglio su quella infelice; e la lotta fu varia, lunga, dolorosa.
Mai non fu che il marchese fratello d'Aurora le comparisse dinanzi: il medico lo aveva assolutamente proibito: ma Baldissero seguiva con ansia e sollecitudine l'andamento della malattia di lei, nè si sarebbe mosso di colà se notizie arrivate di Madrid non avessero costrettolo ad una ratta partenza. Suo figlio nato da poco, Ettore, era stato assalito da una di quelle malattie infantili che tante vite mietono nella prima età e temevasi pei giorni suoi. Il marchese raccomandò la sorella a Nariccia, e partì.
Ed era proprio in buone mani, la povera Aurora, affidata alle cure di quel tristo uomo di Nariccia, il quale veniva dicendosi fra sè con cinica e scellerata speranza:
– Se questa donna morisse, portando seco nel mondo di là il frutto del suo amore, chi vi sarebbe ancora a cui dovrei dar conto dei capitali di Valpetrosa?
Legalmente egli s'era già governato di modo da non avere ostacolo nessuno alla sua ruba, poichè aveva fra le carte dell'ucciso Valpetrosa frugato, trovato quella sua dichiara che certificava simulata la cessione, presala e distruttala: ma se la vedova e il figliuolo del derubato sparissero, tanto di meglio: alla madre di Maurilio contava dare una piccola somma per azzittirla.
Ma dopo alcuni giorni intorno all'ammalata venne da Torino un'altra persona, mandata dal padre medesimo di lei: il frate Bonaventura, il quale Aurora guarita e liberata, doveva poi condurre al scelto monastero: e la misera vedova di Valpetrosa fu dunque in piena balìa di queste tre persone: Nariccia, il gesuita e la fante Modestina Luponi. Quella che per si poco tempo era stata sua suocera non sapeva dove Aurora fosse riparata, nè ancorchè lo avesse saputo avrebbe cercato vederla: ned Aurora chiese mai menomamente di lei.
Non andò gran tempo che una quarta persona si aggiunse a prestare le sue cure alla giacente, e queste furono le cure veramente amorevoli ch'ella ebbe. La cameriera, Modestina, si lagnava che da sola erale troppo faticoso e poco meno che impossibile il bastare ai moltissimi ed incessanti uffizi da rendersi all'ammalata, e siccome se a quella piccola schiera in mezzo a cui viveva Aurora era da aggiungersi una persona, questa volevasi delle più fidate, Modestina, che tutta oramai s'era posta ai servigi di Nariccia e di Padre Bonaventura uniti in una comune e strettissima lega d'interessi, suggerì ella stessa una donna che secondo lei poteva ed era dispostissima ad aiutarla nell'accudire l'inferma, senza pericolo di ciarle o d'indiscrezioni qualsiasi: ed era questa insieme una buona opera che la Modestina, in quel tempo non ancora trista del tutto, come quando la conoscemmo noi sotto il nome di Gattona, invecchiata e pezzente, faceva in vantaggio d'una povera vittima, che era sua cognata, la moglie di suo fratello Michele, soprannominato più tardi Stracciaferro.
E qui ci occorre fare una nuova digressione per narrare brevemente la storia di questa infelice.
Si chiamava Eugenia ed era figliuola di un armaiuolo; questi che un tempo se la ricavava per benino, aveva fatto dare alla figliuola un po' d'educazione di cui essa, dotata d'un ingegno non comune, d'una buona volontà eccezionale e di una rarissima disposizione ad apprendere, aveva tratto un tal profitto che si sarebbe giudicato impossibile. Bellissima e virtuosissima, aveva intorno una nuvola di galanti, da cui era la sua saviezza sola a difenderla, perchè sua madre era morta, e suo padre, sempre inclinato al vizio, s'era ora buttato sulla mala strada addirittura e crescevano in lui lo sciupo del danaro, la smania dei bagordi nella proporzione diretta con cui diminuivano il lavoro ed i guadagni.
Michele era allora maestro di scherma; era di umore irascibile, di carattere impetuoso, d'abitudini manesche, conscio della sua forza e facilmente tracotante, ma non aveva commesso ancora atto che si potesse dir disonesto. La sua abilità nel mestiere gli dava sufficienti guadagni, e il marchese di Baldissero dietro la raccomandazione della cameriera di sua figlia (sorella di Michele) lo aveva fatto nominare eziandio maestro all'Accademia militare. Per ragione del suo mestiere. Michele aveva dapprima conosciuto l'armaiuolo padre di Eugenia, e veduto poscia quest'essa se n'era fieramente innamorato. Aveva cercato ogni maniera per diventare intrinseco dell'armaiuolo; e siccome la più facile era quella di farglisi compagno nella vita disordinata ch'ei menava, Michele, il quale aveva pur esso le medesime tendenze, non trascurò questo mezzo e divenne il compagno assiduo delle orgie e dei bagordi di quello sciagurato, il quale in breve tempo ebbe la maggiore ammirazione e della robustezza di stomaco del maestro di scherma che ingollava vino a bizzeffe senza manco darsene per inteso e della forza straordinaria dei muscoli di lui che lo facevano temuto e rispettato da tutti e la miglior salvaguardia per quelli che fossero dalla sua in ogni baruffa che potesse nascere, tanto che non poteva più passarsela senza l'amico Michele.
Quando adunque quest'ultimo ebbe fatto appena un cenno del suo amore per Eugenia e del suo desiderio d'ottenerla, il padre di lei glie la gettò, come si suol dire, fra le braccia, lieto e di far cosa grata al suo amicone, e per dir tutto il vero, di sbarazzarsi d'un imbarazzo e d'una spesa.
Eugenia non amava nessuno, ma l'ideale dell'uomo a cui avrebbe voluto dare il suo bel cuore ed il suo animo eletto era ben diverso da quello che suo padre le presentava in isposo. La grossolanità fisica, morale ed intellettiva di quell'omaccione facevano il più spiccato contrapposto colla delicatezza di lei: tutto in essa si ribellava a codesta che in fatti era una mostruosa unione, e più che un presentimento la certezza d'un'infelicissima sorte le si affacciava alla mente. Volle contrastare, ma essa era debole, mite, timida; ed ai primi peritosissimi detti che ardì pronunziare di opposizione e diniego, il padre la rimbeccò con tale violenza ch'ella non ebbe altro scampo che curvare il capo e tacersi.
Sposò adunque Michele, ma senza farsi la menoma illusione sul conto di lui, sulla possibilità di trarlo a miglior condotta, sul destino che l'aspettava: andò realmente come vittima rassegnata all'altare, e le sue previsioni e le sue paure avevano pur troppo ad essere tutte effettuate!
La condotta di Michele non si mutò pel matrimonio e non accennò neppure volersi mutare; ma tuttavia da principio l'amore che aveva per Eugenia, se con questo nobil nome può pure chiamarsi il sentimento affatto materiale di desiderio che gli ispirava la bellezza di quella giovane, la mite dolcezza di lei e quell'influsso inesplicabile che in certa misura esercita anche sull'animo più rozzo la grazia d'una donna gentile, poterono ottenere che almanco verso la moglie quello sciagurato usasse alcun riguardo e mostrasse qualche rispetto: così che quando tornava a casa concitato dai bevuti liquori, coll'anima sconvolta e l'umore inasprito dalla perdita nel giuoco, dalle liti che sempre finivano male pei suoi avversari grazie alla sua forza erculea, e cui sempre era il suo spirito tracotante a provocare, Michele cercava di nascondere il suo stato alla giovane moglie e si faceva uno studio di non dirigerle pure la parola. Ma questa specie di suggezione non volle durar lungo tempo. Non tardò guari ad accorgersi il marito, che la sua presenza, i suoi modi, le grossolane manifestazioni de' suoi ardori non cagionavano in Eugenia che una ripugnanza invano voluta dissimulare; sotto l'azione