La plebe, parte IV. Bersezio Vittorio
suo disegno, il vecchio marchese aveva pensato usare un inganno. Gli disse che vedendosi avvicinare ogni di più il fine della sua vita, il rimorso lo aveva assalito di aver tolto alla figliuola il suo bambino ed un gran desiderio gli era nato di restituire a quella poveretta suo figlio, parendogli che dopo ciò più tranquillamente avrebbe potuto avviarsi verso la tomba; aver udito con molta soddisfazione che al bambino erano stati posti certi contrassegni per cui riconoscerlo e poter riaverlo, Nariccia saper egli dove questo bambino si trovasse, glie io dicesse perchè si fosse in grado senza ritardo, di provvedere pel ricupero del medesimo.
Nariccia, con tutta la sua accortezza, cadde compiutamente nella rete. La cosa era troppo naturale perchè non si avesse da crederla, chi non sapesse qual provvista d'odio avesse continuato a rammontarsi, invece che diminuire, nell'anima fiera e crudele del marchese contro il morto Valpetrosa e il rampollo del sangue di lui. Attonito che il marchese sapesse così bene ogni particolare della cosa, l'ex-intendente non osò negar nulla; ma quando il suo antico padrone volle svelasse il luogo dove il bambino era stato posto, fu egli l'uomo più impacciato del mondo, e per torsi d'imbarazzo fini per dire:
– A S. E. non importerà gran che il sapere ch'e' si trovi in questo o in quell'ospizio, purchè la conclusione sia ch'Ella riabbia il bambino. Di qualcheduno Ella avrà pur sempre bisogno il quale vada a prenderlo; chi può far ciò meglio di me che conosco appuntino i contrassegni, e so il giorno e l'ora precisi in cui venne il neonato deposto? Affidi dunque a me siffatto còmpito, ed io fra quindici giorni le prometto di presentarle il bimbo con tutti quegli oggetti che, come S. E. conosce, ne stabiliscono l'identità.
Il marchese guardò ben fisso un istante il suo interlocutore, e poi disse:
– Sia pure… fra quindici giorni la cosa deve esser fatta, e conto aver nelle mani il bambino ed i contrassegni… Se ci mancate, guai a voi!.. Non comparitemi più dinanzi che per annunziarmi il giorno e il momento in cui potrete farmi la consegna di quel che voglio. E di tutto questo sopratutto, assoluto silenzio con mio figlio e con Aurora… Siamo intesi!
Nariccia si curvò in un profondo inchino.
– Andate.
I quindici giorni non erano ancora trascorsi quando Nariccia introdotto furtivamente presso il marchese dicevagli a bassa voce:
– Eccellenza ho nelle mie mani il bimbo.
Uno strano lampo passò negli occhi del vecchio, il quale, con impeto che pareva indicare tornato in lui tutto il primitivo vigore, si levò a sedere sul letto.
– Dove ce l'avete?
– A casa mia.
– Proprio desso?
– Signor sì.
– E i contrassegni?
– Ancora nel sacchetto che cucì e gli appese al collo l'Eugenia.
– Sta bene.
Successe un momento di silenzio.
– Ho da portarglielo qui io stesso quel bambino; domandò poscia Nariccia: o che cosa ne debbo fare?
– Stassera, a mezzanotte, siate sveglio in casa vostra e pronto ad accogliervi chi si presenterà. Verrà alcuno, a cui consegnerete ogni cosa.
– Come si farà egli riconoscere per inviato da V. E.?
– Lo riconoscerete.
L'antico intendente non aggiunse più verbo.
Un anno o poco più era allora trascorso dalla morte di Maurilio; anche allora si era in una fredda notte invernale come quella in cui vedemmo cominciare il nostro racconto, e Nariccia, mentre battevano le dodici ore al non lontano campanile della parrocchia, andava e veniva nella fredda stanzuccia da lui abitata a quel tempo, fermandosi di quando in quando innanzi ad una tavola sovra cui, avvolto in povere ma pulite fascie, stava un bimbo di pochi mesi d'età, il quale dalla pallidezza del piccolo viso, dagli occhi chiusi, dai guaiti di dolore che mandava tratto tratto, pareva più presso a morire che non altro. L'antico intendente non era per nulla contento dei fatti suoi, e volgendo lo sguardo a quel fanciullo, i suoi occhi avevano un'espressione di rincrescimento, di dispetto, di disappunto che impossibile il descriverla. Dalla presenza di lui, Nariccia aveva sperato un momento nuovi guadagni, maggiori di quelli che glie ne avrebbe dati il vecchio marchese il quale non aveva promesso nulla. Dalla marchesina Aurora e da suo fratello avrebbe egli osato domandare quel più che gli piacesse e le sue esigenze sarebbero state subìte: dal marchese padre non poteva pretendere nulla. Andava egli mulinando seco stesso con rabbia di questa sua disavventura e pensando se non avrebbe potuto trovar modo per cui raggirare il mandatario dell'antico suo padrone (e ancora non sapeva egli tampoco chi sarebbe), quando un picchio nell'uscio lo avvertì che la persona aspettata era giunta.
Nariccia aprì e vide entrare due uomini imbaccuccati nei mantelli, uno, che pareva camminare a stento, sorreggendosi all'altro. Nel secondo riconobbe tosto il servo fidatissimo del marchese, e nel primo, quando abbassò la falda onde si copriva la faccia, dovette ravvisare con infinita meraviglia il marchese medesimo, a cui una specie di febbre che gli faceva lucicchiare gli occhi, unita ad una energica volontà, aveva data la forza di sorgere e di venirsene segretamente fin là egli stesso.
– Lei Eccellenza: esclamò inchinandosi Nariccia che vide ogni possibilità di ulteriore inganno affatto svanita.
Il marchese non rispose; andò dritto, diviato alla tavola su cui stava il bambino e lo guardò – la similitudine è vecchissima, ma è l'unica che si attagli – come falco che guarda la preda cui ha da ghermire. Serrò al petto le braccia e stette un istante immobile; tutta la sua vitalità, avreste detto, raccolta nello sguardo. Intorno a lui regnava un silenzio di morte.
Volse di poi la faccia verso Nariccia e domandò bruscamente:
– È desso?
La sua voce aveva una vibrazione metallica che le dava un carattere più imperioso ancora e più aspro.
Nariccia s'inchinò profondamente in segno di affermazione.
– Le prove? Ridomandò col medesimo accento il marchese.
L'antico intendente si accostò al bimbo, levò di intorno a lui un sacchettino di tela che, appiccatogli per un legaccio al collo, stava nascosto in un risvolto delle fascie e lo porse al marchese senza aprir bocca.
Il padre d'Aurora aprì quella tasca e ne trasse fuori gli oggetti che vi si contenevano; erano quelli che sappiamo: il rosario, il bottone e la cartolina scritta dalla Luponi. Esaminò ben bene ogni cosa; poi come se quegli oggetti gli bruciassero le mani li depose sulla tavola. Si accostò vieppiù al fantolino, gli passò intorno al collo il cordone del sacchetto che allora era vuoto, e si chinò su di esso a fisarlo ancora di meglio. Cercava con avido sguardo una rassomiglianza che non riusciva a trovare.
– È strano, disse poi, quasi parlando a se stesso: nulla vi ha in questi tratti che ricordi quelli di colui… nè quelli pur di mia figlia… Ed e' mi par molto piccino…
Si volse al servo che era sempre rimasto in un angolo con riserbatissima discrezione:
– Venite un po' qua: gli disse. Guardate questo bambino. Vi par egli che abbia un anno di età?
Il domestico s'appressò e guardò.
– Veramente è assai piccolo: disse.
Il marchese teneva gli occhi fissi su Nariccia, il quale stava impassibile.
– Ma, soggiunse il servitore, di bambini a quel tempo è difficilissimo poter giudicare a vista i mesi che hanno.
– Egli è deboluccio, a quanto pare, disse allora Nariccia, è da un po' di giorni ch'è separato dalla nutrice, ha sofferto.
Il marchese tornò a prendere in mano e ad esaminare l'un dopo l'altro gli oggetti che dovevano certificare la identità del figliuolo di Maurilio. Non v'era cosa da opporvi, erano proprio dessi: il rosario che il marchese ricordava aver appartenuto a sua moglie, il bottone collo stemma a lui ben noto dei de Meyrand, la scritta col carattere di Modestina. Stette ancora un poco in silenzio: non una fibra del suo cuore palpitò di tenerezza, nè di compassione per quel povero infante, che seguitava di quando in quando a gemicolare;