La plebe, parte III. Bersezio Vittorio
scusa per parlarle alquanto paternamente come mi sono lasciato andare a fare. È manìa de' vecchi di far da mentore, a coloro specialmente che hanno veduto fanciulli.
– La prego di non pentirsi di questa sua buona ispirazione: disse con infinita ossequenza e con quella grazia simpatica che gli era particolare, Massimo d'Azeglio: e mi faccia l'onore di continuare nelle sue amorevoli ammonizioni.
– Ebben sia! Perchè lasciare il servizio? In tutte le generazioni le nostre famiglie hanno sempre dato almeno un figliuolo all'esercito.
– E nella mia famiglia per questa generazione toccava a me; non è vero? Roberto, come primogenito, era obbligato alla carriera civile, il povero Enrico è morto, l'altro mio fratello s'è fatto frate… Già: o frati o militari, non c'è scampo per noi nati dopo il primo in nobile famiglia… Ho avuto dunque torto a ribellarmi al decreto dell'uso e della tradizione. Ma badi un po', marchese, se quella vita del soldato colla sua disciplina fastidiosa e col suo ozio forzato era fatta per me! Io non fui mai così cattivo soggetto come a quel tempo: se ho corso pericolo di diventare addirittura un esecrabile cittadino, si fu allora: le mie pazzie facevan le spese delle conversazioni di tutta Torino: ne ho fatte proprio di brutte che ora mi vergogno a ricordare. Se non fosse stato del povero Bidoni che mi ha dato l'amor dello studio, che cosa sarebbe stato di me? Lo studio mi ha salvato. Certo non credo un artista utile al suo paese come un buon magistrato, un buon generale, un buon ministro: ma qualche cosa il suo lavoro produce pur sempre a vantaggio della comune coltura; e ad ogni modo è meno dannoso un mediocre artista che un cattivo e prepotente ufficiale. E di questi, dello stampo ond'ero io quando facevo le mie mattane alla Veneria ed a Torino, temo anzi che la nostra classe ne dia già troppi al paese, che non sa cosa farne.
– Ma Ella non sa vedere via di mezzo – e sopratutto per un uomo della sua classe, della sua educazione e de' suoi talenti! – fra la vita scapata e bizzarra del giovane ufficiale, e quella non guari più seria di forme e assai meno nobile di sostanza dell'artista? Io rispetto il lavoro di tutti. Un artista che dal seno del popolo si innalzi alla sommità della sua arte, è per me una persona degna di ogni maggior rispetto. Ammiro Carlo V che raccoglie a terra il pennello caduto di mano dal Tiziano; ma un discendente di tante generazioni, da tanti secoli illustri per fasti guerreschi e per uffici politici, mi sembra che abbia assai di meglio da fare che dipingere, scolpire, far musica per professione. Per proprio gusto, come spasso, come riposo a più ponderose occupazioni, va benissimo; ma farne sua principal bisogna, concorrere con quelli che lo hanno per mestiere, come gagne pain, oh questa poi… sarà un pregiudizio, e la prego di perdonarne la manifestazione alla mia franchezza..: questa non mi pare la via meglio da seguirsi da un uomo di nobil sangue.
– Vivere del proprio lavoro, disse con qualche vivacità l'Azeglio, ma che cosa v'è in ciò di meno nobile? Le assicuro, marchese, che io non mi vergogno per nulla di ricevere il prezzo d'un quadro che ho fatto. Ciascuno vende l'opera sua a questo mondo: il prete che vive dell'altare, il ministro che intasca lo stipendio, il ciambellano che piglia la paga e il domestico che riceve il suo salario. Quand'ero ufficiale di cavalleria mi pappavo la mia brava mesata ancor io; e se mi pagavano per farmi battere i quarti sulla sella, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmi dipingere un quadro?3.
Il marchese sorrise, crollò il capo e battendo colle dita una marcia sul bracciuolo della sua poltrona, esclamò scherzevolmente:
– Ah che testa, che testa!.. Non la si correggerà mai più.
– Lo temo anch'io: disse Massimo col medesimo tono.
– Appunto Ella che è artista: disse Baldissero cambiando discorso per mostrare che di quella discussione non voleva più saperne: che cosa pensa di quest'oggetto d'arte?
Ed additava il gran crocifisso in avorio, appeso al di sopra del camino.
Massimo si alzò in piedi, accostò la sua alta persona alla parete, armò i suoi occhi miopi delle lenti ed esaminò attentamente l'oggetto additatogli.
– Molto bello: diss'egli poi; e sta qui prova con tutto il resto, come V. E. rechi in ogni cosa il più severo e intelligente buon gusto.
– Ah ah! esclamò piacevolmente il marchese: io scopro in lei un difetto che non avrei creduto mai più: quello d'essere adulatore.
– È un difetto che non mi sono mai scoperto neppur io: rispose D'Azeglio. Poi prese congedo: allora il marchese gli porse la mano.
– D'oggi stesso le farò una risposta circa la sua domanda d'udienza da S. M. Dove glie la debbo indirizzare?
Massimo diede il suo indirizzo all'albergo Trombetta e partissi.
Meno di mezz'ora dopo il marchese di Baldissero trovavasi in presenza di S. M. il Re Carlo Alberto, nella reggia ricca e severa di Torino.
CAPITOLO III
Carlo Alberto, seduto innanzi ad una tavola stupendamente intarsiata, col braccio appoggiatovi su dal gomito al pugno richiuso, stava nella sua attitudine abituale di sfinge incompresa e che non vuol lasciarsi comprendere. Non era un infingersi il suo, era un nascondersi: non portava innanzi alla faccia una maschera, ma copriva ogni sua emozione d'un velo di severo e solenne riserbo.
Dell'aspetto morale di quest'uomo storico, quale appariva in que' tempi, ci sia lecito tratteggiare il ritratto colle parole che nei suoi Ricordi ne scrisse Massimo d'Azeglio medesimo.
«Il re in quel tempo, era un mistero; e per quanto la sua condotta posteriore sia stata esplicita, rimarrà forse in parte mistero, anche per la storia. In allora i fatti principali della sua vita, il ventuno ed il trentadue, non erano certo in suo favore; nessuno poteva capire qual nesso potesse esistere nella sua mente fra le grandi idee dell'indipendenza italiana, ed i matrimoni austriaci; fra le tendenze ad un ingrandimento della casa di Savoia, ed il corteggiare i gesuiti, o il tenersi intorno uomini come l'Escarena, Solaro della Margherita, ecc.; fra un apparato di pietà, di penitenza da donnicciuola, e l'altezza di pensieri, la fermezza di carattere che suppongono così arditi progetti.
«Perciò nessuno si fidava di Carlo Alberto.
«Gran danno per un principe nella sua condizione: perchè con queste povere astuzie, affine di mantenersi l'aiuto di due partiti, si termina invece per perder la grazia degli uni e degli altri4.»
A Carlo Alberto che aveva mirabile il coraggio delle battaglie, che aveva un fermo animo innanzi ad ogni pericolo che minacciasse la sua persona, mancava il coraggio della risolutezza. Da ciò il suo continuo ondeggiare, dipendente non tanto dalla volontà e da un disegno prestabilito, quanto dal temperamento e dall'influsso delle momentanee circostanze. Si avanzava d'un passo da un lato, ma lo aspetto d'una difficoltà lo faceva indietrare poi tosto di due: e le difficoltà che lo attorniavano da ogni parte, morali e materiali, erano infinite e complicate e gravissime. Avrebbero richiesto una forza d'intelletto e di volere e di fibra ben superiore a quella che la natura e la sua vita trascorsa mettevano ora in poter suo. Questa sua che in realtà era debolezza, egli ammantava d'una solennità grave, che pareva profondità di concetto, avvolgeva d'un'atmosfera di silenzio, di dubbie parole e dubbi sorrisi e dubbie reticenze che pareva astuzia di macchiavellismo. Sapeva che una volontà anche non potente, ma soltanto tenace, vicino a lui l'avrebbe dominato; ed aveva quindi per sistema di sfuggire a tal pericolo mettendo sempre a fronte nel suo consiglio due volontà di due partiti opposti; con questo giuoco di bilancia, egli sperava ottenere una specie d'equilibrio per compensazione, in cui libera la sua volontà. Non s'accorgeva ch'egli non riusciva ad ottenere altra indipendenza fuori quella del pendolo elettrico che oscilla continuamente dall'uno all'altro dei due poli di elettricità differente.
Aveva delle velleità da piccolo Carlomagno e da Aroun-al Rascid. Avrebbe voluto veder tutto, saper tutto, conoscer tutto del suo popolo; sarebbe uscito ancor egli la notte, camuffato, come il celebre Califfo di Bagdad, per iscorrere traverso la città a sorprenderne i misteri e rappresentar la parte di Provvidenza interveniente, se avesse avuto il coraggio di violare quella che fu una delle tiranne della sua vita di Re: l'etichetta. L'esser egli Re per grazia di Dio, pensò e ritenne forse più ch'ogni altro mai, e credette avere nella sua persona una dignità direttamente venuta dal cielo, cui doveva prestare ossequio
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Espressione testuale dell'Azeglio.
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Massimo d'Azeglio: