Il Quadriregio. Frezzi Federico

Il Quadriregio - Frezzi Federico


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convien che n'esca e quel che 'l tiene infragna.

              Io ho veduto giá ch'egli ha levato

              del loco un monte e fatta un'apertura

              sopra la terra con sí grande iato,

              che 'l re d'inferno avuta ha gran paura

        110 che non discenda insin laggiú il raggio

              e non illustri la sua patria oscura.

              E dico a te che anco veduto aggio

              Eolo re temere alcuna volta,

              quand'apre i monti e dá a' venti il viaggio.

        115 Egli escono con furia ed ira molta,

              quasi lioni o Cerbero feroce,

              quando si vide la catena sciolta.

              E discorrendo van per ogni foce;

              e, se si scontran due venti inimici,

        120 il turbo fanno, il qual cotanto nòce.

              Quest'è che gitta a terra li edifici

              con gran ruina e percuote li tetti,

              e svelle gli arbor dalle lor radici. —

              E giá poneva fine alli suoi detti,

        125 se non ch'io dissi: – Deh! di' se la luce

              del sol fa nell'inferno alcuni effetti. —

              Allor rispose: – Il sol, ch'è primo duce

              di ciò che nasce, pietre preziose,

              oro ed argento di laggiú produce.

        130 Ver è che Pluto tutte queste cose

              dona alla sposa sua, la quale è figlia

              di quella che l'andata a me impose.

              Io dirò a te una gran maraviglia:

              che d'oro mi mostrò un sí gran monte,

        135 che'ntorno gira piú di diece miglia. —

              E disse: – Io prego, quando lassú monte,

              che tu nol dichi agli uomini del mondo

              e d'esta mia ricchezza non racconte;

              ché son sí avari, che 'nsin quaggiú al fondo

        140 ei cavarieno a rubbar il tesoro,

              il qual m'è dato in sorte e qui nascondo;

              e son sí ghiotti e cupidi dell'oro,

              che giá han cavato ingiú trecento braccia:

              che non vengan quaggiú temo di loro. —

        145 E, detto questo, con la lieta faccia,

              ridendo, inchinò alquanto e disse: – Addio; —

              e poi n'andò come chi fretta avaccia.

              Alla mia scorta allora torna' io;

              e seguitaila insin all'oceáno

        150 per un viaggio molto aspero e rio.

              Nettuno a noi col suo tridente in mano

              venne risperso di marine schiume,

              sí che sua barba e 'l capo parea cano.

              Con lui vennon le ninfe d'ogni fiume,

        155 delle quali al presente non ne narro,

              ché 'n altra parte il contará il volume.

              Nettuno poi ne pose sul suo carro

              e solcòe 'l mar; e li mostri marini

              facean, mirando noi, al plaustro sbarro.

        160 Triton sonava, e li lieti delfini

              givan saltando sopra l'onde chiare,

              che soglion di fortuna esser divini.

              Poiché mostrato m'ebbe tutto il mare

              e che dell'acque la cagion mi disse,

        165 perché sotto son dolci e sopra amare,

              in terra ne posò e lí s'affisse,

              e fe' ballar per festa le sue dame:

              e poi dicendo: – Addio, – da noi partisse.

      Allor Venus andò al suo reame.

      CAPITOLO XVI

      Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all'autore, perché usavano atti disonesti d'amore; onde Venere il menò a ninfe piú oneste, ma piú piene d'inganno.

              Chi di Venus ben vuol saper il regno

              com'è disposto, sguardi pure agli atti;

              ché ogni balla si conosce al segno.

              Come gli uomini sonno dentro fatti,

          5 nell'opera di fuor si manifesta:

              quella è che mostra i saggi ed anco i matti.

              Poiché passata avemmo una foresta,

              io vidi il regno suo piú oltra un poco

              e gente vidi quivi in gioia e festa.

         10 Ed in quel regno quasi in ogni loco

              eran distinte ninfe a sorte a sorte

              in balli e canti ed in solazzi e gioco.

              Quando si funno di Ciprigna accorte:

              – Ecco la nostra dea – dissono alquante, —

         15 che torna a suo reame ed a sua corte. —

              Ben mille ninfe allor venneno avante,

              di rose coronate e fior vermigli,

              vestite a bianco dal collo alle piante.

              E de' loro occhi e dell'alzar de' cigli

         2 °Cupido fatto avea le sue saette

              e l'ésca, con la qual gli amanti pigli;

              ché quelle vaghe e belle giovinette

              con que' sembianti moveano lo sguardo,

              che fa la 'manza che assentir promette.

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