Un bel sogno. Cagna Achille Giovanni
una fantasia nella quale stillava tutta la sua feconda inspirazione. Buona parte ne era fatta, ma la riuscita non corrispondeva mai alle esigenze dellʼartista.
Passava ore intiere alla ricerca di una frase, diremo di più, ogni nota era lʼoggetto di un paziente esame, ne provava tutte le vibrazioni, ne analizzava lʼaccento modulandola in mille guise finchè lʼaveva collocata al suo vero posto – Era un lavoro lunghissimo, un raffinamento squisito del genio, un ricamo della fantasia.
Sorprendiamo Ermanno in una delle sue veglie. La notte era già di molto avanzata, eppure non se ne accorgeva; da più di unʼora le sue mani cercavano sulla tastiera unʼidea inafferrabile che gli attraversava la fantasia senza poterla colpire. – Non solamente la parola si ribella ad esprimere tutto ciò che si concepisce; la musica siccome quella che presenta un campo pia vasto nella regione delle idee, riesce sempre più indecisa nellʼespressione del pensiero. Qual è lʼartista che possa vantarsi di tradurre fedelmente le idee che gli sorgono dalla mente? Tutto ciò che si esprime in arte non è che una pallida riproduzione di ciò che si concepisce. Se le parole potessero tener dietro e concretizzare tutti i voli dellʼimmaginazione, sarebbe gran ventura per gli uomini di genio.
Tali riflessioni le faceva pure Ermanno che da molto tempo affaticavasi invano nel cercare la traduzione di un concetto troppo ardito per poterlo esprimere coi mezzi incompleti dellʼarte. Già era passata la prima ora del mattino senza che lʼostinato artista pensasse che anche la natura esige i suoi tributi; ei non aveva sonno, la sua volontà era tanto fissa in quellʼidea che non sentì neanche il suono di una voce che lo chiamava per nome. – Alla seconda chiamata però si scosse, ed alzandosi immantinente corse ad aprire la porta che introduceva in una stanza attigua alla sua sclamando:
– Hai chiamato mamma?
– Sì, rispose la voce.
– Attendi, porto il lume, e levata una candela dal pianoforte, ritornò nella camera della madre accostandosi premurosamente al letto.
– Ti senti forse male?
– No, no, rispose sorridendo la buona donna, sto benissimo, ho domandato perchè voglio che tu vada al riposo, è molto tardi ed hai lavorato abbastanza.
– Ma no, non sono stanco, ti assicuro che mi sento bene.
– Non importa, tu non sei troppo robusto figlio mio, dà retta a me, va al riposo, da bravo.
– Va bene, mormorò Ermanno sorridendo, vado, ma, per farti piacere.
Nella stessa camera eravi una specie dʼalcova nascosta da unʼampia cortina; Ermanno aveva colà il suo lettuccio; vi entrò e poco dopo madre e figlio stavano immersi nel sonno. La madre era una donna sui cinquantʼanni ancora ben conservata; in essa consisteva tutta la famiglia del pianista a cui da molti anni era mancato il padre. Non si potrebbero dire i sacrifizi che fece quella buona donna onde assecondare le inclinazioni artistiche del figlio, ma ne riceveva in compenso il ricambio di unʼaffezione figliale senza pari.
Quelle due creature vivevano lʼuna dellʼaltra; Ermanno non usciva mai a meno che non vi fosse costretto dalle sue faccende. Di giorno dava lezioni di musica, verso sera faceva una breve passeggiata colla madre, indi entrambi rientravano; egli si assideva tosto al pianoforte suo fedele amico, come diceva, la madre gli si poneva accanto, e stava ad ascoltare la musica finchè il sonno non le gravava le ciglia, poi se ne andava al riposo – Ermanno fermavasi ancora lunghe ore a studiare senza che per ciò il sonno della madre venisse menomamente disturbato; anzi quella buona creatura si addormentava dolcemente come in braccio ad una visione, fra i flebili accordi del pianoforte, e lʼultimo suo moto era un sorriso di compiacienza che le restava impresso sulle labbra.
Dallʼepoca in cui Ermanno si accinse a dar lezioni, le sorti della piccola famiglia erano dʼassai migliorate, e mercè unʼassiduo lavorare, il figlio poteva procurare tutti i comodi alla madre – Ogni giorno si arricchiva dʼun mobile quel modesto alloggio, e dopo molti risparmi erasi avverata una cara speranza; potendo finalmente il giovane artista far acquisto di un buon pianoforte, e rinunziare al suo vecchio tavolaccio.
Niuno più felice di quei due esseri che vivevano unicamente per consolarsi a vicenda. Accadeva talvolta che Ermanno dovesse passar la sera in qualche concerto, e la madre allora non si metteva a letto finchè egli non fosse di ritorno, lo aspettava se dʼestate alla finestra, se dʼinverno accanto al fuoco, tendendo lʼorecchio a tutti i passi che risuonavano sulla via.
Nel seno di unʼesistenza sì tranquilla Ermanno trovava le inspirazioni per lʼarte sua, e nel silenzio della sua cameretta vegliava le notti studiando, confortato dal pensiero che mercè sua la buona madre riposava tranquilla e felice. Entrambi insomma godevano di una pace domestica rara ed invidiabile.
Allʼindomani di quella notte in cui Ermanno aveva protratto lo studio sino a tarda ora, mentre stavasene seduto al piano discorrendo colla madre, fu bussato alla porta.
– Avanti, rispose il giovane, volgendosi per scorgere chi vʼentrava, oh sei tu Alfredo?.. Che nuove?..
Un giovinotto vestito con molta eleganza e ricercatezza, entrava liberamente come uno che fosse di casa, e dopo di aver stretta la mano a mamma Alvise, si avvicinò ad Ermanno dicendo:
– Proprio io, ti disturbo forse?
– Eh! scherzi, tu sai che di te non mi prendo soggezione. La mia sorpresa attribuiscila allʼessere qualche giorno che non ti vedo. – La tua famiglia come sta?
– Benissimo. Fui a Milano, non lo sapevi?
– Ma no, risposa Ermanno additando una sedia allʼamico.
– Propriamente, sono stato a Milano per dodici giorni, in casa di mio zio a cui ho portata via la famiglia per farla passar qualche tempo con noi.
– Come, è in Brescia la signora Ramati?
– Sì; ho incarico di farti i suoi saluti. Per parte di mia sorella poi, debbo tirarti unʼorecchio; a quanto ella mi disse, tu hai disertata la nostra casa.
– Chiedi scusa per me a madamigella Letizia, figurati che non ho ancora potuto arrivare a metà della mia Fantasia per piano solo, e sì che ci lavoro attorno di santa ragione.
– E che perciò, ne abbiamo forse noi colpa alcuna per abbandonarci così? – Ora poi, aggiunse Alfredo, spero che vorrai favorirci, tanto più che mia cugina muore per la voglia di sentirti; le parlai tanto bene di te.
– Come hai una cugina?
– Ma si, la figlia dello zio, una giovinetta di diciassette anni, uscita che è poco dal collegio, bionda, bella e viva come una farfalla. Tu la vedrai con piacere; anzi venni apposta per dirti che stassera sei atteso. Mia sorella te ne prega, mia cugina te ne scongiura.
– Bada, disse Ermanno sorridendo, tu parli con troppo ardore di questa cugina.
– Che vuoi mio caro! è una fanciulla così viva ed amabile, che mi butterei sul fuoco per piacerle. – È convenuto, stassera ti aspetto.
– Senti Alfredo, non potresti dilazionare? Per questa sera avevo unʼaltro progetto.
– Impossibile, se tu non mi prometti di venire, non avrò più il coraggio di presentarmi a casa; mia cugina…
– E dalli.
– Oh senti, tu verrai ad ogni costo, perchè ho già impegnata la mia parola; anzi siccome conosco i tuoi gusti per la tranquillità, diedi ordine che per questa sera non si riceva alcuno; così saremo noi soli a bearci delle tue melodie. Ripassa se lo hai dimenticato quel tuo bellissimo notturno – Al chiaro di luna – Mia cugina è ansiosa di sentirlo. – Siamo dunque intesi, stassera alle sei ti aspetto, pranzeremo insieme.
– Impossibile, interruppe Ermanno, fino alle otto non sono in libertà.
– Perchè?
– Perchè alle sette ho un altro impegno.
– Allora alle otto, già di te mi fido…
– Sta sicuro.
– Addio.
– A rivederci.
Alfredo Ramati era