Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9. Giannone Pietro

Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9 - Giannone Pietro


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non meno la perduta disciplina, che le gravezze, che soffrivano i nostri Regnicoli, e le continuate scorrerie de' Turchi, non meno che de' banditi, tennero occupato il Conte di Benavente in cure sollecite e moleste. Per essere il Regno stato premuto tanto con sì spessi e grossi donativi, e gravose tasse, mal si soffrivano poi nuove gravezze e nuovi dazj. Non finivan mai i bisogni della Corte e le richieste di nuovi soccorsi; onde bisognò finalmente venire all'imposizione d'una nuova gabella sopra i frutti. Dispiacque notabilmente alla plebe sì scandalosa gabella, ed ancorchè soffrisse il giogo, non lasciava internamente d'abborrirlo e di scuoterlo sempre che le ne veniva l'opportunità. Avvenne, che un Gabelliere avea fatto dipingere nella casetta ove riscoteva il dazio, posta al Mercato, otto Santi Protettori della Città: ciò parendo disdicevole al Vicario Generale della Diocesi, volendo egli farsi giustizia colle sue mani, mandò un suo Ministro con comitiva, con ordine di cancellar quelle Immagini con molto rumore e strepito. Accorse per ciò ivi molta gente, ed in un tratto si vide quella contrada piena di popolo: alcuni fomentati da' mal contenti, credendo che il tumulto fosse per levar via la gabella, si lanciarono sopra quella stanza per rovinarla da' fondamenti, affinchè si togliesse ogni vestigio di sì abbominevol dazio. Fu il tumulto sì strepitoso, che se la vigilanza del Vicerè non faceva tosto accorrer gente per quietarlo, sarebbe certamente degenerato in una aperta rivoluzione. Si quietò finalmente, ed il Vicerè volle prender severo castigo de' Capi principali dell'eccesso, e sopra ogni altro, dell'impertinente Ministro mandato dal Vicario, cagione di tutto il disordine: si opposero a ciò gli Ecclesiastici con attaccar brighe di giurisdizione; ma il Vicerè castigò severamente i Capi, e mandò in galea il Ministro del Vicario.

      Una nuova gabella imposta sopra il sale cagionò pure dell'amarezze e disturbi; ma sopra tutto era intollerabile l'uso delle monete, tanto avidamente tosate da' Monetarj, che impedivano notabilmente il commercio: fu la città per sollevarsi, ma vi diede il Conte tosto riparo, con lasciar correre le zannette (moneta, il cui valore era di mezzo carlino) giuste o scarse che fossero, e che l'altre monete, nuove o vecchie, si ricevessero a peso per supplire con ciò alle tosate, e per togliere a' Monetarj l'occasione di tosarle per l'avvenire.

      Le scorrerie de' Corsari Turchi nelle marine di Puglia non meno frequenti che dannose, saccheggiavano, predavano e riducevano in ischiavitù non picciol numero di persone. Essi s'aveano fatto asilo la Città di Durazzo nell'Albania, lontana dal Capo d'Otranto non più che cento miglia. Per isnidarli da quel luogo, fu risoluto doversi impiegar ogni opera per distrugger Durazzo. Ne fu data la cura al Marchese di S. Croce, il quale colla squadra delle nostre galee, giunto nei lidi d'Albania, e poste a terra le soldatesche ed artiglierie, superò a viva forza il Castello di Durazzo, diede il sacco alla Città, la distrusse, e ciò che vi rimase, fece divorar dalle fiamme.

      I banditi dall'altra parte non lasciavano d'infestar le Calabrie: vi accorse D. Lelio Orsini per far loro argine, ne dissipò buona parte, ma non gli estinse affatto; imperocchè essendo notabilmente cresciuti, provvidero alla loro salvezza, ritirandosi altrove tra monti inaccessibili.

      Ma non meno fastidiose e moleste furono le contese, ch'ebbe il Conte di Benavente a sostenere con gli Ecclesiastici per cagion d'immunità pretesa, non meno per le loro persone, che per le Chiese. La gran pietà del Re Filippo III, e la poca sua applicazione al Governo de' suoi Regni, diede lor animo di far nuove sorprese, e sopra tutto di far valere nel Regno la Bolla di Gregorio XIV stabilita intorno all'immunità delle Chiese. Si resero a questi tempi sopra noi maggiormente animosi, dal vedere, che in quella famosa contesa insorta tra il Pontefice Paolo V colla Repubblica di Venezia, sopra la quale tanto si è disputato e scritto, il Re Filippo pendeva dalla parte del Pontefice; e non ostante, che la causa di quella Repubblica doveva esser comune a tutti i Principi, seppero far sì, che il Re, non solo s'impiegasse a trattar per essi vantaggioso accordo, spedendovi a tal effetto in Venezia D. Francesco di Castro con carattere di suo Ambasciadore; ma l'indussero a comandare al Conte di Benavente nostro Vicerè, e al Conte di Fuentes Governador di Milano, che in ogni caso assistessero alla difesa della Sede Appostolica; onde da Napoli il Vicerè mandò a quest'effetto in Lombardia ventidue insegne di fanteria sotto il comando di Giantommaso Spina, ed altre ventitrè sotto il Marchese di S. Agata. Quindi è, che fra la turba di coloro che scrissero in questa causa a favor del Pontefice contra il P. Servita, Fr. Fulgenzio e Giovanni Marsilio Teologi di quella Repubblica, ve ne siano molti Spagnuoli, e de' nostri ancora, e tra questi vi fu anche il Reggente di Ponte, riputato a torto fra noi il più forte sostenitore della regal giurisdizione.

      Avea Papa Gregorio nel 1591 pubblicata una Bolla, nella quale derogando alle Bolle di Pio e di Sisto V, ristrinse il numero de' delitti incapaci d'immunità, e quel che più era insopportabile, volle, che i Giudici Ecclesiastici avessero a giudicare della qualità de' delitti, e quali fossero gli eccettuati, affin di poter estrarre i delinquenti dalle Chiese; e che il Magistrato Secolare non ardisse d'estrarli, se non con espressa licenza del Vescovo; da poi che avrà costui giudicato d'essere i rei immeritevoli del confugio, per aver commessi delitti eccettuati dalla Bolla.

      Prima il dichiarar le Chiese per Asili e dichiarar i delitti, s'apparteneva agl'Imperadori, come si vede chiaro ne' libri del Codice di Teodosio e di Giustiniano, e per cinque interi secoli, la Chiesa sopra ciò non v'avea stabilito canone alcuno4: la qual preminenza, come fu veduto ne' precedenti libri di questa Istoria, fu lungo tempo ritenuta da' nostri Principi. Da poi si videro stabiliti sopra ciò alcuni canoni, ed i Pontefici non vollero in appresso tralasciare nelle loro Decretali di maggiormente confermarsi in questo diritto. Ma furono i primi canoni e le prime loro Costituzioni moderate e comportabili, tanto che le Bolle di Pio e di Sisto non recarono fra noi molta novità, nè furono stimate cotanto strane, sì che se ne dovesse far risentimento, siccome accadde promulgata che fu questa di Gregorio, contenente pregiudizj gravissimi alle preminenze del Re e de' suoi Magistrati. Il Conte di Lemos D. Ferdinando, non la fece perciò valere nel Regno, mentre vi era Vicerè, ed a' 2 d'agosto del 1599, fece dal Reggente Martos far relazione al Re de' pregiudizj, che conteneva; ed il Re sotto li 27 febbrajo del seguente anno 1600, gli rispose, che non facesse sopra ciò far novità alcuna, ma che osservasse il solito d'estrarre i delinquenti, che si ritirano nelle Chiese, avendo egli ordinato, che si faccia istanza in Roma al Papa, acciò che moderi la Costituzione di Gregorio. Il perchè avendo il Conte, niente curando della Bolla, fatto estrarre di Chiesa il Marchese di S. Lucido, e datane parte al Re, gli fu dal medesimo risposto sotto li 17 ottobre del medesimo anno, che egli approvava il fatto, e che per l'avvenire non permettesse sopra ciò far introdurre novità alcuna5.

      Ma nel governo del Conte di Benavente gli Ecclesiastici, resi più animosi, impresero in ogni conto volerla far valere nel Regno, in tempo men opportuno che mai; poichè la città, per la perduta disciplina, era tutta corrotta, quando i delitti erano più frequenti, e quando le Chiese erano cresciute in tanto numero, che non vi era angolo, che non ne abbondasse. S'aggiungeva, che oltre alla Bolla di Gregorio, li Canonisti ed altri Dottori Ecclesiastici aveano trattato questo soggetto d'immunità con sentimenti così stravaganti e smoderati, che finalmente rare volte, secondo essi, poteva avvenir caso di poter estrarre rei per qualunque delitto, che si fosse, dalle Chiese; ed ascrivendo alla sola Corte Ecclesiastica il potere di dichiarare i delitti eccettuati, diedero in tali stranezze, che secondo le loro massime, era impossibile poterne qualificar uno per tale. Di vantaggio stesero a lor capriccio l'immunità de' luoghi, non solo a' Cimiterj, Monasterj, Cappelle, Oratorj, alle Case de' Vescovi ed Ospedali; ma anche agli atrj, alle case, alle logge, a' giardini, a' vacui ed insino a' forni, ch'erano alle Chiese vicini. Sono in fine arrivati a tale estremità di dire, che se il rifugiato, ancorchè laico, commetta nel luogo dell'asilo qualche delitto, possa il Giudice Ecclesiastico giudicarlo, col pretesto che si sia abusato del confugio.

      Bastava, per non far valere la Bolla di Gregorio, la sola frequenza de' delitti ed il tanto numero delle Chiese: di che poteva il Conte di Benavente, per governo del Regno a se commesso, prender ancora ammaestramento dalla sapienza del Senato Romano, il quale, secondo che narra Tacito6, crescendo tuttavia in molte città della Grecia l'abuso di multiplicarsi gli Asili, tanto che quelle città erano ripiene d'uomini scelleratissimi, per la licenza che lor dava l'immunità di quelli, con danno gravissimo dello Stato, reputò il Senato, a cui Tiberio avea commesso tal affare, che dovesse restringersi


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<p>4</p>

V. Petr. Sarpi De Jure Asil. c. 1.

<p>5</p>

Chiocc. M. S. Giur. tom. 17 De Immnun. Eccl.

<p>6</p>

Tacit. l. 3. Annal. c. 31.