Racconti e novelle. Ghislanzoni Antonio
prima di assolvere o di lanciare la scomunica, attendono che il reo abbia finita la confessione. Ed è una confessione, o per lo meno un resoconto sincero della mia vita d'artista che mi trovo in obbligo di fare. Voi, mio padre, ne conoscete una parte, ma vedo che è mestieri ricordarvela. Abbiate dunque la pazienza di ascoltarmi, e poi, quanto al verdetto finale, ci rimetteremo all'arbitrio di una persona affatto disinteressata, vale a dire al nostro amico giornalista.
Il vecchio vuotò un secondo bicchiere, e strinse le labbra in segno del grande sforzo che gli costava il silenzio.
«Non ricordo quale filosofo, riprese il pianista, abbia dettato un libro per dimostrare l'influenza che hanno i nomi sul destino degli individui. Certo è che l'avere un bel nome, un nome geniale e simpatico, ordinariamente porta fortuna. Non ho mai capito questa predilizione dei nostri antenati nell'appropriarsi dei cognomi tolti a prestito dalle bestie. I Gatti, gli Orsi, i Leoni, i Bove, i Capponi, i Galli, perfino i Pulci, i Lumaga, i Sanguettola, i Mosca, i Tenca, i Ghezzi, i Formica, i Volpi, i Merli, gli Allocchi, ecc., ecc., costituiscono la maggioranza delle famiglie italiane… Poi seguono, in gran numero, i cognomi composti, dove parimenti figurano le bestie; tali i Pestagalli, i Mangiagalli, i Caccialupi, i Portalupi, i Cacciamosche, i Pelegatti, ecc., ecc., e infine, per tacer d'altri, gli Scannagatta. Ecco una statistica che potrebbe fornire ad uno storico, ad un archeologo, fors'anche ad un filosofo moralista, argomento di serie considerazioni. Quanto a me, per non istancare la vostra pazienza, mi limiterò a dirvi che il cognome di Scannagatta fu in certo qual modo la mia disgrazia originale. Non intendo darne colpa al mio ottimo padre, qui presente; nè tampoco serbo rancore a quel dabben cognato che tenendomi al fonte battesimale, si piacque aggravare la mia disfortuna gratificandomi del nome di Bartolomeo. – Fatto è, che all'età di sei anni, quando entrai nella scuola comunale per iniziarmi ai primi esercizi dell'alfabeto, io cominciai ad esperimentare la funesta influenza de' miei due nomi. Tutte le volte che il maestro mi chiamava all'appello, dai banchi della scolaresca io udiva insorgere una specie di miagolio che somigliava ad una protesta contro una scannatura di gatti; – e quando, nel recitare le prime lezioni, mi avveniva di rimanere a bocca chiusa, il maestro, gettandomi il libro alla faccia: Va là, mi gridava, va pur là, che sarai sempre un bartolomeo!
»Queste prime umiliazioni prodotte dal nome mi irritarono, mi contristarono siffattamente, che un bel giorno (voi, mio padre, non lo avrete scordato) venni a casa tutto piangente a manifestarvi il mio fermo proposito di non tornare mai più alla scuola. Il mio proposito fu tanto pertinace che voi vi appigliaste al partito di provvedere da voi medesimo alla mia educazione, e mi insegnaste con tanta amorevolezza e pazienza la bell'arte della musica. Condussi, per una diecina d'anni, una esistenza da romito, uscendo rare volte di casa e sempre solo, studiando indefessamente. I primi successi musicali, ottenuti a Biella nel circolo ristretto dei nostri parenti ed amici, mi avevano ridonato il coraggio, riconciliandomi perfino coi due nomi fatali, che erano stati l'origine delle mie disavventure infantili. Venne il tempo di produrmi nel gran mondo. Tutti mi animavano ad uscire da Biella; e voi stesso, ottimo padre, vi mostravate convinto che io era, per la mia età, un piccolo portento.
»Nella primavera dell'anno… mi recai dunque, pieno di illusioni e di speranze, alla capitale del regno. Mi accompagnava il cognato Bartolomeo. Ignari sì l'uno che l'altro degli usi del mondo, non ci eravamo data veruna briga per premunirci di lettere commendatizie. Noi giungevamo a Torino colla semplice scorta del mio talento ignorato e colle cento lire messe assieme dalla famiglia per le spese di quel primo cimento. – Ci recammo da un capocomico per ottenere che mi lasciasse suonare qualche pezzo fra gli intermezzi della rappresentazione. – A chi ho l'onore di parlare? chiese il capocomico. – Io mi chiamo, rispose il cognato, Bartolomeo Zuffolone di Biella, e questo giovane è il signor Bartolomeo Scannagatta… – Quanti Bartolomei! interruppe l'artista – e tutti di Biella?.. Basta! penseremo… rifletteremo… – In quel punto sopravvenne un signore, che era, per quanto sapemmo dippoi, il proprietario del teatro. L'artista drammatico si tenne in obbligo di presentarci a lui. – Zuffolone! Scannagatta! che razza di nomi! esclamò il nuovo personaggio, squadrandomi dal capo al piede come fossimo due mendicanti. – Ci mancherebbe altro! Con questi due nomi sull'avviso, faremmo scappare la gente. – E ci piantò là, traendo seco il capocomico. – Confusi, umiliati da questo primo accoglimento, uscimmo dal teatro e ci demmo a passeggiare per più di un'ora sotto i portici di Po, meditando e discutendo sul da farsi. Per caso, ci venne veduto un magazzino, dove si davano cembali a nolo. Entrammo, sotto pretesto di noleggiare uno strumento, e dopo alcune parole, parendo a noi che il padrone della bottega fosse un uomo ammodo, chiedemmo a lui delle informazioni sulle pratiche a farsi per dare un concerto. – Un concerto di pianoforte!.. esclamò il dabben uomo inarcando le ciglia – ella non farebbe un soldo in questo momento… Abbiamo qui uno dei più celebri pianisti d'Europa che fa furore nelle sale e nei circoli – la società torinese farnetica per questo straordinario talento – ella avrebbe l'aria di voler sfidare un confronto impossibile… insomma… io la sconsiglio dal tentare la prova. – E come si chiama questo portento dell'arte? domandai io, con un leggiero accento di ironia che tradiva le prime emozioni del mio orgoglio giovanile. – Si chiama… si chiama, rispose il noleggiatore dei pianoforti ingrossando la voce, monsieur Etzcy'. – Salute! Dio la prosperi! esclamammo ad una volta mio cognato ed io, credendo che l'altro avesse sternutito – e vedendo che quegli non parlava: – dunque si chiama? replicò mio cognato. Ma non glie l'ho già detto? Etzcy'!.. – Ti scoppi il naso! – brontolò mio cognato – e senza altro dire, uscimmo dalla bottega.
»Com'io riuscissi, dopo molte noie e molti sacrifizi, a dare il mio primo ed unico concerto a Torino, non val la pena ch'io lo narri. Voi foste testimonio (e qui il narratore diresse a me la parola) dello scarso concorso di spettatori, del loro contegno indifferente e quasi nemico. Non ho mai dimenticato nè sarò mai per dimenticare che voi, quasi solo, osaste interrompere con applausi e con voci di ammirazione il mio ultimo pezzo. La stretta di mano amichevole e le incoraggianti parole che mi volgeste dopo il concerto furono il solo compenso che io mi ebbi in quella angosciosa serata; senza di voi, il mio giovane cuore da artista si sarebbe lasciato vincere dalla disperazione.
»Tornammo a Biella di assai cattivo umore. Di quel mio debut non parlò alcun giornale tranne un ignobile fogliaccio umoristico, dove il cronista teatrale si scusava coi suoi lettori di non aver assistito al concerto per la diffidenza che gli avevano ispirato i due nomi di Scannagatta e di Bartolomeo.
»Si tenne un consiglio di famiglia. Voi non oblierete, mio ottimo padre, quanto io abbia combattuta la vostra idea fissa di farmi ritentare la prova a Milano In me era già entrata la convinzione che col mio nome di Bartolomeo Scannagatta non era possibile il successo fuori dalla Biella nativa.
»Le vostre istanze mi vinsero. – Voi mi persuadeste che il nostro maggior torto era quello di andare a Torino senza lettere commendatizie, e questa volta me ne procacciaste una mezza dozzina. Partii solo. Il nome di Bartolomeo Scannagatta mi pareva abbastanza grottesco senza condur meco, per rinforzare il ridicolo, un Bartolomeo Zuffolone. Io presagiva che qualora mio cognato mi avesse seguito a Milano, qualcheduno ci avrebbe accolto colla solita esclamazione di ironia: che posso io fare per due Bartolomei? E il mio presentimento colpiva nel vero. Se a Torino il mio sciagurato nome aveva alienata da me l'attenzione e la protezione dei dilettanti, a Milano mi accadde di peggio.
»Quando io mi recai al Conservatorio per ottenere una audizione privata, l'egregio direttore dello Stabilimento mi accolse con paterna benevolenza. Adunò i professori e gli scolari nella sala dei concerti, accompagnò la mia presentazione con parole incorraggianti; ma non appena egli ebbe proferito il mio nome, io m'accorsi che i giovani alunni ed anche qualcuno dei maestri si erano sbandati per nascondere la loro ilarità. – Che volete? Mi appressai al pianoforte di mala voglia – suonai quattro o cinque pezzi dinanzi ad un uditorio svogliato e disattento, e all'atto di abbandonare il mio posto, mi accorsi che nella sala non v'era più alcuno, tranne l'ottimo direttore.
»Questi mi mosse incontro, mi pose paternamente la mano in sulla spalla, e dopo aver encomiato le mie composizioni: «Mio buon figliuolo, soggiunse; è indubitabile che ella possiede un talento notevole, ma pure mi trovo in obbligo di avvertirla che in Milano difficilmente ella potrà farsi strada in questi tempi. Ella ha un torto grandissimo in faccia a quella che ora si suol chiamare la grand'arte, e questo torto consiste nella desinenza del suo nome… –