Racconti e novelle. Ghislanzoni Antonio
a tale siamo giunti, proseguì il direttore-maestro, con un accento che rivelava l'angoscia, che i nomi di desinenza italiana non hanno più credito sulla piazza. – La straniomania è giunta a tale che io mi meraviglio sieno ancora tollerati al nostro Conservatorio una dozzina di maestri, nati e cresciuti nel nostro clima. La si figuri che l'altra settimana in questa medesima sala dov'ella ha trovato degli uditori così indifferenti od avversi, ha destato fanatismo un pianista compositore piovuto dal nord, a lei incomparabilmente inferiore sotto ogni aspetto. Ma egli aveva la fortuna di chiamarsi Sfrrrt…
»A quel punto, due gatti che stavano giocolando sul tappeto, fuggirono a salti per la scaletta che conduce al palco scenico. – Vedete! proseguì il Direttore – questi nomi che mettono in fuga i gatti fanno a Milano ben altri miracoli – giornalisti, musicisti, dilettanti, professori, alunni ne rimangono ammaliati… Se più dura la voga di questi nomi senza vocali e gonfi di aspirazioni, non si potrà parlare di musica e di concerti senza sputare ogni volta mezza dozzina di denti.
»L'egregio vecchio mi aveva dipinta al vero la situazione dell'arte e dei musicisti. Io presentai le mie lettere a due o tre giornalisti, i quali neppure si degnarono di annunziare il mio concerto – e dopo aver suonato al teatro Santa Radegonda, dinanzi ad un pubblico composto per la massima parte di droghieri e di ex-impiegati in pensione, i quali ebbero la bontà di applaudirmi a furore e chiedermi il bis di due pezzi, all'indomani ebbi la soddisfazione di leggere nell'appendice di un grave giornale che un pianista di nome Scannagatta, dopo essersi prodotto fra gli intermezzi della commedia, era partito alla mezzanotte da Milano in un omnibus carico di Biellesi venuti espressamente per ricondurre in patria quel loro genio incompreso.
»Fu allora, che esacerbato, avvilito, ma pure fidente nel mio ingegno e nel mio avvenire, io risolsi di abbandonare l'Italia per cercare all'estero quella protezione che dai nostri mi era negata. Mi scritturai in qualità di maestro concertatore, con un impresario di Stoccolma. Mi tuffai anima e corpo nella musica per dodici anni – ridussi, composi, trascrissi, diressi orchestre, diedi lezioni di canto e di pianoforte, mi produssi in concerti, e rinunziando al mio nome, come avevo rinunziato alla patria, mi creai e feci imprimere sulle mie carte di visita quel Daniel Nabaäm De-Schudmoëken, che in oggi fa tanto dispetto e tanta ira a mio padre.
»Chi esperimentò a vivere per molti anni lontano dal proprio paese, non ignora che quel malessere chiamato nostalgia assale, più presto o più tardi, anche coloro i quali non ebbero in patria che sconforti ed amarezze. – Questa fase della nostalgia venne anche per me. Era un bisogno, una sete di respirare l'aria nativa non solo, ma anche di assaporare il successo in quel paese che a me, negletto e rejetto, non cessava mai di presentarsi quale un giardino incantato delle arti.
»Doveva io, poteva io, dopo le traversie del passato, riprendere il mio sciagurato nome di Bartolomeo Scannagatta, nel giorno appunto in cui io veniva qui per chiedere ai miei connazionali il battesimo della gloria? I fatti che io vi ho narrati vi suggeriranno la risposta. Certo è che, appena fiutata l'aria di Milano, ho dovuto applaudirmi della mia risoluzione. Qual differenza fra l'accoglimento che in oggi viene fatto a Daniel Nabaäm De-Schudmoëken e quello già toccato al povero Bartolomeo Scannagatta di Biella! L'altro ieri, recandomi a visitare il più erudito dei vostri giornalisti, l'ho veduto estasiarsi di ammirazione nell'affissare il mio biglietto di visita. Un altro, nel proferire Nabaäm, rimase per due minuti a bocca spalancata, cogli occhi smarriti nelle palpebre. Due o tre membri della Società del quartetto, nell'udire un mio esecrabile waltzer tutto pieno di dissonanze, parvero assaliti da catalessi – tutte le dame patronesse vogliono vedermi, reclamano le primizie del mio talento – nelle aule del Conservatorio da due giorni è una gara fra maestri, alunni ed alunne, a chi meglio proferisca il mio nome – Stamattina ho ricevuta una lettera di quattro pagine, colla quale un giornalista mi chiede scusa se il mio nome venne stampato senza i due puntini sull'oë, e mi prega di attribuire questa irriverenza alla ignoranza del proto. Insomma…»
– Insomma, interruppe il padre dell'artista, poichè il mondo è tanto buffo, tanto gaglioffo, tanto infatuato di pregiudizi e di minchionerie…
– Trattiamolo com'esso merita – non è vero? E così parlando, l'artista prese amorevolmente fra l'una e l'altra mano la buona testa del vecchio, e gli impresse un bacio sulla fronte.
– Via! via! – riprese quell'ottimo padre raddolcito – chiamati Rabadam, chiamati Balaäm, chiamati come vuoi al concerto – ma quando il pubblico ti avrà applaudito, quando le dame saranno in svenimento, quando i giornalisti avranno sbuffato i loro oh! oh! di ammirazione – ti prometto ch'io salterò in mezzo della sala per gridare a tutta voce: «Sappiate, signori minchioni illustrissimi e colendissimi, che questo bel mobile che ha suonato come nessuno sa suonare, si chiama il signor Bartolomeo Scannagatta, figlio e scolaro di Girolamo Scannagatta qui presente, quondam organista della cattedrale di Biella…
– E musicista, perdio! e maestro come ce ne hanno pochi nel mondo…!
– E poi torneremo insieme a Biella…
– A far della buona e bella musica, in mezzo a gente che se ne intende davvero, perchè ha cuore e buon gusto.
La Corte dei Nasi
I
Piperio III, re dei Panami, era un principe saggio e di indole assai mite. I suoi sudditi lo adoravano. Assunto al trono in età giovanissima, egli aveva proclamato ai suoi popoli uno statuto dei più liberali. Gli avventurosi abitatori della Panamia avevano veduto in pochi anni, mercè l'iniziativa del loro principe ben amato, realizzarsi tutte le riforme sociali e umanitarie reclamate dai tempi… e dai ladri.
Piperio III poteva chiamarsi un re felice. Nel territorio a lui soggetto non esisteva che un solo giornale repubblicano il quale osasse talvolta indirizzargli qualche frizzo mordace. Piperio leggeva quel foglio tutte le mattine tra una fumata e una tazza di caffè. L'ottimo principe sorrideva dei lazzi democratici che lo assalivano. Egli si sentiva troppo integer vitae scelerisque purus, per irritarsi di ogni baja giornalistica.
Nullameno, la esistenza serena di questo principe privilegiato tratto tratto era annebbiata da una leggiera nubecola, da un'ombra nera, che poteva essere gravida di procelle. Quest'ombra era projettata da un naso, dal naso stesso del principe. La natura avea dato a codesto accessorio del volto principesco dei contorni così spiccati, e, diciamolo francamente, delle proporzioni così eccedenti, che a vederlo di profilo, quel naso attirava l'attenzione, e poteva provocare dei sorrisi irriverenti. Naso profilato, simmetrico, perfettamente modellato, ma alquanto più lungo dei nasi ordinari. Il principe, vedendolo riflesso dagli specchi, non osava arrestarvi lo sguardo, e sempre in vederlo sentiva una stretta nel cuore, e la sua fronte si increspava di una ruga sinistra.
Ma quelle impressioni di disgusto non erano che lampi fugaci. Piperio era amato dalla generalità, nè giammai gli era accaduto di sorprendere nel volto di alcun suddito il menomo accenno di ironia all'indirizzo del suo naso. Quel principe osservatore, dopo dieci anni di regno, già cominciava a persuadersi che il difetto da lui solo avvertito, non fosse altra cosa che un'ottica menzogna degli specchi.
Ma la provvidenza non opera a caso
Quando crea un grand'uomo od un gran naso: e aggiungiamo pure quest'altra sentenza infallibile: Da grandi cause non possono prodursi che grandi effetti.
Strana potenza della parola stampata! A ridestare nella mente di re Piperio tutti gli allarmi assopiti, bastarono tre parole del giornale repubblicano stampate in corsivo.
Qual'è l'uomo, per poco sia assiduo lettore di giornali, che mai non abbia impallidito e tremato dinanzi ad una frase in corsivo?
Era un bel mattino di maggio. Il re si svegliava da un olimpico sonno. A destra del letto, da una guantiera sfavillante di oro e di gemme, esalavano i profumi di un moca squisitissimo. Dall'altro lato, sovra un bacile d'argento cesellato, stavano schierati dodici grossi zigari del colore dell'ambra.
Il re accese uno zigaro, assorbì voluttuosamente un primo sorso di caffè, poi, sciolta la fascia al giornaletto democratico, tuffò in esso il suo sguardo penetrante e sereno.
Che è stato? Lo zigaro è caduto dalle auguste labbra. La mano convulsiva del principe tenta