L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli

L'Ombra Del Campanile - Stefano  Vignaroli


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tono pacato, per passare in breve a parole tuonate, che si infiggevano come affilatissimi coltelli nel petto di ognuno.

      «Ma state certi che chi ha tradito pagherà!»

      Fece una pausa di silenzio, facendo scorrere il suo sguardo sulla massa dei fedeli. Nelle panche delle prime file sedevano i nobili, dietro di loro gli artigiani e i bottegai; la folla in piedi, assiepata nelle navate laterali e, chi non aveva trovato posto, anche sul sagrato della chiesa, rappresentava la plebaglia, il popolo dei lavoratori. Ognuno, nobile o meno che fosse, tremava all’idea di poter essere il capro espiatorio da portare al patibolo, solo per soddisfare il desiderio del Cardinale di dare in pasto al popolo qualche colpevole, placare gli animi e prendere in mano le redini del governo lasciato vacante dal Capitano del Popolo.

      «C’è di certo lo zampino del Diavolo, del Demonio, dietro un assalto così vile. E sappiamo che qualcuno a Jesi si è alleato con lui, aprendo al nemico le porte della città. E chi è sempre in combutta con il diavolo? Le streghe!», e fissò lo sguardo sulla sorella Elena, che seguiva la sua omelia da una panca della seconda fila. «Gli ebrei! E chi fa affari con loro. Attenti voi, commercianti, bottegai, artigiani, che prendete soldi in prestito a interesse, o affidate i vostri risparmi all’ebreo che abita giù vicino al fiume. Nessun Cristiano offrirebbe gli stessi servigi, perché l’usura è condannata dalla Chiesa, dal Papa: è un grave peccato.»

      Coloro che erano stati nominati impallidirono, immaginandosi già su un patibolo a fianco di Giosuè. Ognuno di loro si era infatti prima o poi rivolto all’ebreo. Un piccolo prestito, necessario a iniziare un’attività, o a dare una spinta innovativa alla stessa, valeva infatti la pena di essere restituito con interessi. E puntualmente i guadagni venivano reinvestiti nel banco di Giosuè, che garantiva sempre una rendita, grande o piccola che fosse. Da quando poi erano stati aperti i traffici con il Nuovo Mondo, anche molti commercianti Jesini avevano cavalcato l’onda e approfittato di lucrosi scambi. La maggior parte della mercanzia proveniente dalle Indie Occidentali raggiungeva il porto di Barcellona, in Spagna. I commercianti più accorti si sobbarcavano le spese di un viaggio ogni tanto fin là per acquistare, grazie a favorevoli aste, merce che sarebbe stata rivenduta a cinque volte il prezzo a cui l’avevano acquistata, nelle loro botteghe, ma soprattutto nelle fiere e nei mercati. Lo stesso Franciolini aveva affrontato più di una volta il lungo viaggio fino a Barcellona, ed era ritornato con i carri stracolmi di merce. Certo, se il primo viaggio non fosse stato finanziato dall’ebreo, non avrebbe avuto modo di arricchirsi come era avvenuto. Aveva restituito i soldi a Giosuè con i dovuti interessi e aveva reinvestito i guadagni, in parte in nuovi viaggi, in parte in certificati di credito acquistati dall’ebreo stesso. E molti altri in città avevano fatto così. Mai come negli ultimi venti anni, sia il mercato settimanale, sia le varie fiere, a Jesi, erano state così ricche di merci pregiate in esposizione. Ogni sabato la Piazza principale, detta proprio Piazza del Mercato fin da tempi remoti, si riempiva di bancarelle, e i forti odori delle spezie aleggiavano nell’aria già dalle prime ore del mattino. La fiera di San Settimio, in onore del Santo Patrono della città, iniziava il 22 Settembre e si prolungava fino alla metà di Ottobre. I venditori non se ne andavano finché la stagione non volgeva al brutto e iniziavano le piogge autunnali. Le bancarelle occupavano non solo la Piazza del Mercato, ma si estendevano lungo tutta Via delle Botteghe, mentre la Piazza del Panno e la Piazza delle Scarpe prendevano il nome proprio dalle merci che vi si potevano acquistare durante i giorni di mercato e di fiera. Oltre quella di San Settimio, si tenevano a Jesi altre fiere minori, quella di Santa Maria, alla fine di marzo, e quella di San Floriano, dal 30 Aprile all’8 Maggio.

      Elena, dalla panca in seconda fila, aveva ascoltato con distrazione la lunga omelia del fratello. La sua mente vagava, si interrogava su dove fosse la sua nipote Lucia, anche se lo poteva immaginare, e fin dove si volesse spingere Artemio nelle sue manie di potere. In certi casi poteva essere davvero pericoloso, e non si sarebbe fatto scrupoli se a farne le spese fossero stati anche membri della sua famiglia. Tre giorni prima aveva visto entrare in casa il Duca di Montacuto e il Granduca di Urbino, e la cosa non le era piaciuta affatto. Senza essere una veggente, aveva potuto capire benissimo quali fossero gli accordi che sarebbero stati presi. Era scesa nelle cucine, da dove, per uno strano effetto acustico dovuto a una canna fumaria in comune con quella che passava nello studio del fratello, si potevano ascoltare le parole che venivano pronunciate nella stanza sovrastante. E aveva ricevuto l’esatta conferma dei suoi sospetti. “Come promesso, intercederò presso il Santo Padre affinché a Voi, Granduca Della Rovere, vengano restituite terre e titolo. Potrete ritirarvi a Urbino ed essere rispettato per sempre dai vostri sudditi. Per quanto riguarda Ancona, caro Duca, entro un mese farò versare nelle casse della vostra città diecimila fiorini d’oro, che serviranno ad ampliare e fortificare il porto, ma dovrà essere garantito lo scalo commerciale ai mercanti della città di Jesi. E ora, ritirate i vostri eserciti.”

      Come al risveglio da un sogno, la voce del fratello, da quella ascoltata qualche giorno prima distorta da un tubo, ritornò a giungere reale alle sue orecchie.

      «Chi di voi sa, parli! Chi conosce i traditori, li accusi, e vi garantisco che la giustizia farà il suo corso! Nei prossimi giorni, il Tribunale da me presieduto sarà sempre aperto e, per l’occasione, sarà al mio fianco anche un giudice civile, l’unico rimasto in vita, il nobile Dagoberto Uberti. Saremo pronti ad ascoltare tutte le testimonianze e tutte le denunce! …Oremus!»

      I fedeli si alzarono dalle panche e la Santa Messa andò avanti, con l’offertorio, la benedizione del pane e del vino e, quindi con il sacramento dell’Eucaristia. Solo da qualche anno, le ostie, una volta consacrate, per non essere sprecate, venivano conservate nel tabernacolo. Erano prodotte dalle monache di clausura, utilizzando un impasto ottenuto con acqua e farina modellato in piccoli pezzetti rotondeggianti. Questi venivano schiacciati con una pressa metallica, dove un valente artigiano, della scuola orafa jesina, aveva inciso, in bassorilievo, il disegno della croce che prende origine dalla H della scritta IHS. Le ostie così ottenute avevano un aspetto rotondeggiante piuttosto irregolare e riportavano il disegno in rilievo impresso loro dal “negativo” della pressa. Oltre quelle contenute nel tabernacolo, quel giorno gli officianti ne avevano consacrate numerosissime, tanta era la popolazione raccolta in chiesa, in realtà tutta la cittadinanza e il contado al completo.

      I fedeli si misero in coda per ricevere l’eucaristia, disponendosi su due file parallele lungo la guida di velluto rosso. Via via che si avvicinavano all’altare, passavano di fianco ai corpi dei caduti e aggiravano la bara di Guglielmo Franciolini, chi da un lato, chi dall’altro, subito prima di giungere a ricevere la Comunione. Mentre il Cardinal Baldeschi distribuiva il sacramento ai fedeli che giungevano all’altare dal lato destro, Padre Ignazio Amici faceva la medesima cosa dall’altro lato. Per una strana coincidenza, Elena Baldeschi si era messa in fila per ricevere l’ostia da suo fratello, e subito dietro di lei c’era Elisabetta, la giovane ragazza che ancora riportava sulle braccia e sul volto i segni delle bruciature di cui aveva ritenuto responsabile la nipote di colei di cui ora vedeva la schiena, giusto un passo avanti.

      «Corpus Christi.» Le parole uscirono come una cantilena dalla bocca del Cardinale, mentre poneva l’ostia sulla lingua della sorella, leggermente sospinta in avanti attraverso la bocca aperta. Elena notò una strana luce negli occhi di Artemio, che seppe come interpretare. Già sentiva le fiamme avvinghiarsi intorno al suo corpo; non c’era bisogno di leggere il pensiero del fratello per capire quali fossero le sue intenzioni. Tra le sue vittime sacrificali ci sarebbe stata anche lei, e forse persino Lucia, se avesse avuto modo di ritrovarla. Il pensiero che proprio un ministro di Dio riuscisse a essere persona così infida e malvagia, le fece rivoltare lo stomaco. Sentì risalire l’acidità dalle viscere verso la bocca, e il groppo in gola era premonitore di un conato di vomito.

      «Amen!» Elena fu lesta a girarsi su se stessa, con l’ostia ancora in bocca, trovandosi faccia a faccia con la ragazza che era subito dietro di lei. Non riuscì a trattenere il conato e l’ostia fuoriuscì con forza dalle sue fauci, mentre le sue mani, d’istinto, riuscivano a recuperarla, a evitare che il corpo del Signore cadesse in terra. La cosa non sfuggì a Elisabetta, che in un lampo realizzò l’occasione di vendicarsi sulla nonna per le presunte colpe di Lucia.

      «Sacrilegio!», gridò, indicando l’anziana e puntandole il dito indice contro. «È una strega! Si è tolta l’ostia


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