L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli
se qui dentro non abbiamo aria condizionata, meglio tenere le finestre chiuse. Sudare non ha mai fatto male a nessuno, mentre l’aria potrebbe essere nociva per le opere che abbiamo in custodia!» Lucia vide il decano dirigersi verso il finestrone, ma anziché chiuderlo come doveva essere sua intenzione, aprì la zanzariera e si affacciò dalla ringhiera metallica della balconata. In un attimo, il decano sparì. Lucia si precipitò sul balcone e guardò di sotto. Il corpo di Guglielmo Tramonti giaceva esanime sul lastricato della Piazza, riverso con il volto verso terra, vestito da Cardinale e circondato da una chiazza rossastra, che si espandeva pian piano, costituita dal suo stesso sangue. Come era potuto accadere? Da dove proveniva tutto quel sangue? L’altezza non era eccessiva! Si era forse fracassato il cranio e il suo liquido vitale lo stava abbandonando da una ferita apertasi sulla fronte? E i vestiti? Come mai aveva indosso l’abito porporato? Pochi attimi prima non lo portava! Sollevò lo sguardo a cercare i particolari della Piazza e la vide di nuovo come era nella visione che aveva avuto poco prima, quando era uscita dal bar: la Piazza di una città rinascimentale. La voce del decano, proveniente dalle sue spalle, la riportò alla realtà. Si ritrovò a mettere a fuoco con gli occhi la lapide con cui, nella facciata della prospiciente Chiesa di San Floriano, si ricordava Giordano Bruno come vittima della tirannide sacerdotale. Tutto era al suo posto, la fontana con l’obelisco, il Complesso di San Floriano, la Cattedrale, i Palazzi Vescovili, Palazzo Ghislieri. Poco più avanti, sul campanile del Palazzo del Governo sventolava come di norma la bandiera tricolore.
«Allora? Dico di chiudere la finestra e tu che fai, esci sul balcone? Ma… sei sicura di star bene, ragazza? Sei molto pallida, vuoi tornare a casa per oggi?»
«No, no, grazie, sto bene! È passato tutto, solo un giramento di testa. Ho sentito il bisogno di uscire per ossigenarmi, per prendere una boccata d’aria fresca. Ma ora è tutto a posto, posso rimettermi a lavoro.»
«Bene, ma sarei contento di sapere che tu ti sottoponga a un controllo medico. Non è mica che sei incinta?»
«Ancora lo Spirito Santo non è venuto a farmi visita», concluse ironicamente il discorso Lucia, accompagnando queste ultime parole con un gesto evasivo della mano. Prese il libro sulla Storia di Jesi e iniziò a scannerizzare le prime pagine. Alla decima pagina, aprì il programma OCR sul computer e si mise a correggere a mano gli errori, cosa che le permetteva di leggere notizie a lei in parte sconosciute.
LA LEGGENDA DI UN RE
La storia di Jesi ha inizio in un lontano giorno di tremila anni fa. Un inizio senza spettatori. Una piccola folla di gente risale il corso del nostro fiume, incolonnata lungo la sponda sinistra. Avanza lentamente, aprendosi la strada tra la fitta sterpaglia e gli alti pioppi che si specchiano nelle acque del fiume.
E' gente strana, dal nome strano, « pelasgi » li dicono dalle loro parti, i volti abbronzati, segnati dalla stanchezza di un viaggio lungo e avventuroso. Hanno indumenti logori; alcuni vestono pelli di animali che sanno di selvatico. I volti degli uomini sono incorniciati da capigliature e barbe folte che interminabili giornate di sole hanno reso aride, stoppacciose.
Sono i superstiti di una flottiglia di piccoli e veloci legni che hanno vinto la battaglia contro le tempeste dell'Adriatico. Sono sbarcati da pochi giorni verso la foce di quel fiume che ora sbriciola in mille luccichii i raggi del sole. Emigrati dalla loro terra, che è stata la patria dei loro vecchi, degli eroi cantati da un poeta cieco per i villaggi della lontana Grecia, sono alla ricerca di una nuova terra, di una nuova patria.
Ed eccoli giunti, dopo una marcia estenuante, ai piedi di un'altura cresciuta come d'incanto nel cuore della vallata che li aveva accolti giù, alla foce del fiume. Tutt'attorno, boschi a perdita d'occhio, arrampicati sulle colline circostanti. E il silenzio di una natura addormentata da millenni. Da sempre.
Un uomo, dall'aspetto venerando e regale, con l'insegna del comando, indica quel promontorio che par quasi un isolotto emerso a bella posta, nel mezzo della valle, per raccogliere dei naufraghi. E si incammina in quella direzione. Gli altri lo seguono, tenendo il suo passo, senza parlare. Sulla parte più alta del colle, il vegliardo re spinge lo sguardo lontano, scoprendo un paesaggio meraviglioso, disegnato dalle cento tonalità di un verde immenso, tagliato appena dalla sinuosa traccia del fiume che si perde giù, verso il mare.
Il vecchio re, rivoltosi allora ai suoi, fa un cenno di assenso e tutti depongono a terra le loro povere cose. Dunque hanno trovato finalmente la terra promessa, sono giunti alla meta del lungo peregrinare per mari e terre. Questa, d'ora in avanti, sarà la loro nuova patria.
E così fu che re Esio fondò la città di Jesi.
E quindi i primi Jesini erano Greci, in fuga dalla città di Troia distrutta. Come Enea, con i suoi aveva risalito le coste del Tirreno per insediarsi in Lazio, il Re Esio aveva trovato la via più agevole, risalendo l’Adriatico e giungendo alla foce dell’Esino. Lucia si era entusiasmata alla storia e i sogni e le visioni erano ora relegate in un angolo remoto della sua mente. Il suo cervello e la sua fantasia erano già in moto. Questi dati e queste notizie potrebbero essere utilizzate per una bella pubblicazione o, perché no, per la stesura di un romanzo storico ambientato in queste zone, cominciò a pensare Lucia, meditando anche sui possibili guadagni.
CAPITOLO 5
Ricordati, uomo, che polvere sei e polvere ritornerai!
(Genesi 3,19)
Il Cardinale indicava i fedeli raccolti in chiesa, puntando il suo dito inquisitore e fissando il suo sguardo, uno dopo l’altro, su alcuni volti delle prime file.
«Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris!», ed era capace di far sentire colpevole chiunque incontrasse i suoi occhi, anche se in vita sua non aveva mai fatto nulla di male.
La Domenica mattina, a distanza di dieci giorni dall’efferato e vile attacco da parte degli eserciti nemici, approfittando della pace di cui il Cardinal Baldeschi stesso era stato l’artefice, i corpi degli Jesini caduti nelle strade, nelle piazze e nelle loro abitazioni erano stati recuperati e disposti, coperti da teli bianchi, sul nudo pavimento della chiesa di San Floriano, da un lato e dall’altro rispetto alla guida di velluto rosso che dall’ingresso si spingeva fino ai tre gradini che conducevano all’altare. L’unico che era stato sistemato in una cassa di legno rifinita e decorata, che aveva trovato la sua collocazione proprio avanti all’altare maggiore, era Guglielmo Franciolini. La cassa, che non aveva coperchio, sarebbe stata calata in un’apposita nicchia del pavimento della chiesa, ricoperta da una lastra di marmo che riportava inciso il suo nome e che sarebbe diventata parte integrante del pavimento stesso. Gli altri caduti sarebbero stati trasportati, attraverso un’apertura presente nella navata laterale, nella cripta, dove avrebbero trovato posto in un’anonima sepoltura comune. Un ambiente che coincideva con antichi sotterranei di costruzioni di epoca romana, le cui caratteristiche di umidità e temperatura favorivano la decomposizione dei corpi senza diffondere agli ambienti sovrastanti gli ingrati odori della putrefazione.
«È difficile in momenti come questo ringraziare il Signore!»
Il Cardinale, affiancato sull’altare dal Domenicano Padre