L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli

L'Ombra Del Campanile - Stefano  Vignaroli


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comune, laureata in lettere antiche, specializzata in storia medioevale, era pronta ad affrontare l’impatto con l’ambiente esterno. Era una delle ultime discendenti di una nobile famiglia jesina, i Baldeschi-Balleani e, per ironia della sorte, nonostante dalla nascita non fosse mai riuscita a vivere e abitare nella sontuosa residenza di famiglia in Piazza Federico II - né tantomeno nella stupenda villa fuori Jesi – ora si ritrovava a lavorare proprio in quel palazzo. Aveva accettato di buon grado l’incarico offertole dalla Fondazione Hoenstaufen, che aveva trovato lì la sua naturale sede, proprio nella Piazza in cui tradizione vuole che nel 1194 fosse nato Federico II di Svevia, principe e poi Imperatore della casata Hoenstaufen. Come tutte le famiglie nobili, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, finita la mezzadria, finite le rendite di immensi latifondi agrari ereditati da tempo immemorabile, anche i Baldeschi-Balleani non furono immuni dal giocarsi la maggior parte dei beni di famiglia, vendendoli o svendendoli al miglior offerente, pur di mantenere il tenore di vita a cui erano abituati. Il ramo Baldeschi, un po’ più saggio, si era trasferito in parte a Milano, dove aveva messo in piedi una piccola ma redditizia azienda di design e architettura, in parte in Umbria, dove gestiva un ridente agriturismo in mezzo alle verdi colline di Paciano. Al ramo Balleani erano rimaste le briciole e il padre di Lucia continuava con tenacia e ben poco guadagno a mandare avanti l’azienda agricola che consisteva di appezzamenti di terreno sparsi tra le campagne di Jesi e Osimo. Lucia era una ragazza, oltre che molto bella, davvero intelligente. Grazie ai sacrifici del padre aveva potuto frequentare l’ateneo bolognese e laurearsi con ottimi voti. Il suo pallino era la storia, in particolare quella medioevale, forse perché sentiva in maniera forte, dentro di sé, da un lato l’appartenenza alla città che aveva dato i natali a uno dei più illuminati Imperatori della storia, e dall’altro alla famiglia che per prima aveva dato un Signore a Jesi. Era stata infatti la ghibellina famiglia Baligani – il cognome si era trasformato con il tempo in Balleani - che nel 1271 aveva istituito la prima Signoria a Jesi. Con alterne vicende, Tano Baligani, a volte schierandosi con i guelfi, altre volte con i ghibellini, a seconda di come tirava il vento, aveva cercato di conservare il dominio della città, contro altre famiglie nobili, in particolare contro i Simonetti, i quali anche avevano in certi periodi preso le redini del comando della città. Nei due secoli a seguire, i Balleani si sarebbero imparentati con la famiglia Baldeschi, che aveva dato alla città diversi Vescovi e Cardinali, al fine di suggellare un tacito accordo tra Guelfi e Ghibellini, soprattutto per contrastare il nemico esterno e tamponare le mire espansionistiche dei Comuni limitrofi, in particolare di Ancona, ma anche di Senigallia e di Urbino. Proprio per questa sua passione, il decano della fondazione Hoenstaufen aveva voluto assumere Lucia per la riorganizzazione della biblioteca del palazzo appartenuto alla nobile famiglia. Biblioteca che vantava pezzi molto rari, come una copia originale del Codice Germanico di Tacito, ma che non erano mai stati classificati a dovere. Oltre alla classificazione dei libri presenti, Lucia aveva altri interessi, dei quali aveva cercato di parlare col decano, come quello di raccogliere tutte le fonti storiche sulla città di Jesi presenti sia in questa che nelle altre biblioteche della zona, al fine di poter dare alle stampe un’interessante pubblicazione. Oppure quello di mappare il sottosuolo del centro storico, ricco di vestigia appartenenti a epoca romana, al fine di avere una ricostruzione dell’antica città di Aesis il più vicina possibile a quello che era stata nella realtà.

      «Hai molte belle idee, sei giovane e piena di entusiasmo, e ti capisco, ma la maggior parte degli accessi ai sotterranei è interdetta, in quanto si deve passare dalle cantine di palazzi privati, i cui proprietari il più delle volte negano il consenso.»

      L’anziano decano scrutava la ragazza con i suoi occhi grigio verdi da dietro le lenti degli occhiali. La barba grigia non riusciva a celare il senso di disapprovazione che provava nei confronti della sigaretta elettronica, dalla quale ogni tanto Lucia aspirava una nuvola di vapore denso e biancastro, che nel giro di brevi istanti si dileguava nell’aria della stanza.

      «Non è necessaria l’esplorazione fisica dei sotterranei. Si potrebbe far sorvolare la città da un elicottero per ottenere delle rilevazioni radar. La tecnica adesso è questa e dà ottimi risultati.», cercava di insistere Lucia, per veder realizzato uno dei suoi più grandi sogni.

      «Chissà quanti soldi occorrerebbero per un progetto simile. Abbiamo fondi, ma sono abbastanza limitati. L’Italia non è ancora uscita dalla crisi economica che la affligge ormai da diversi anni, e tu mi vieni a proporre progetti faraonici? La cultura è bella, sono io il primo ad affermarlo, ma dobbiamo stare con i piedi in terra. Vedi quello che riesci a realizzare esplorando i sotterranei di questo palazzo. Comunicano direttamente con la cripta del Duomo, chissà che tu non riesca a tirar fuori qualcosa di interessante. Ma fallo al di fuori delle ore per cui vieni pagata. Il tuo compito qui è ben definito: riorganizzare la biblioteca!» Il decano stava per lasciare la ragazza al suo lavoro, e alla sua delusione, quando si rigirò: «E, un’ultima cosa! Elettronica o no, qui dentro non si fuma. Ti pregherei di evitare di usare quell’aggeggio mentre lavori.»

      Con gesto plateale, Lucia sfilò la sigaretta elettronica dal collo cui era appesa con l’apposito cordoncino, ne spense l’interruttore e la ripose nel suo astuccio, che andò a infilare dentro la borsa. Dalla stessa prese pacchetto di sigarette e accendino e guadagnò l’androne di ingresso per andare a fumare in santa pace una vera sigaretta all’esterno.

      Martedì 30 Maggio 2017 si presentava, fin dalle prime ore del mattino, una giornata serena, tersa, di tarda primavera. Il cielo era azzurro e, nonostante il sole fosse ancora basso, Lucia fu abbagliata dalla luce non appena chiuso dietro di sé il portone di casa. Aveva trovato un’ottima sistemazione, affittando un appartamento ristrutturato in Via Pergolesi, nel centro storico, a poche centinaia di metri dal suo posto di lavoro. Ma quello che era più interessante per lei era il fatto di trovarsi proprio nel palazzo che aveva ospitato, a piano terra, nel XVI secolo, una delle prime stamperie jesine, quella del Manuzi. L’enorme salone adibito a tipografia era stato nel tempo utilizzato per altri scopi, finanche come palestra e come sala riunioni di qualche partito politico. Ma questo non toglieva comunque fascino a quel luogo. Uscita dal portone e attraversato un piccolo cortile, Lucia era solita attardarsi a rimirare l’arco da cui si usciva sull’antica strada lastricata, Via Pergolesi, un tempo il Cardo Massimo dell’epoca Romana, poi chiamata Via delle Botteghe o Via degli Orefici, per le attività preminenti che vi si erano svolte nei vari periodi.

      Delle splendide botteghe di un tempo, in effetti, ne erano rimaste ben poche. Molte avevano le serrande abbassate ormai da diversi anni, e quelle aperte ostentavano in vetrina beni e servizi che con l’antichità, con il fasto e lo splendore dei negozi orafi di un tempo, avevano ben poco a che spartire. Il cartello turistico imbrattato dalle cacate dei piccioni stava a indicare che l’ arco del Palazzo dei Verroni non era di origine romana, come l’aspetto poteva portare a credere, ma era stato realizzato nel XV secolo da tale Giovanni di Gabriele da Como, architetto che aveva lavorato a fianco del più noto Francesco di Giorgio Martini nella realizzazione del vicino Palazzo della Signoria. Tanto che qualcuno in passato aveva attribuito anche quell’arco al Di Giorgio Martini. Secondo Lucia, i romani non dovevano essere del tutto estranei a quell’opera, che si affacciava proprio sul Cardo Massimo. Magari gli architetti rinascimentali si erano limitati a restaurare un antico arco, le cui vestigia erano sopravvissute ai secoli e al rovinoso terremoto dell’anno 848.

      Pochi passi tra gli austeri palazzi del centro storico furono sufficienti per far passare Lucia dall’ombreggiata Via Pergolesi alla luminosa Piazza Federico II. Mancava ancora qualche minuto alle otto, ora in cui doveva attaccare a lavorare. Avrebbe fatto in tempo a fumare un’altra sigaretta prima di entrare nel Palazzo, ma la sua attenzione fu attirata dalle quattro statue di marmo che sorreggevano come cariatidi il balcone del primo piano. Per un momento, ebbe l’impressione che i quattro “telamoni” fossero animati di vita propria, quasi volessero venire verso di lei per parlarle, per raccontarle storie vecchie di secoli, di cui si era persa la memoria. Ebbe come un giramento di testa, che le fece immaginare la balconata, non più sorretta dalle possenti statue, inclinarsi verso il suolo, e le riportò alla mente il sogno che ormai da parecchie notti la rendeva protagonista di una storia avvenuta cinque


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